Eugenio Montale (a sinistra) e Sergio Solmi (via Ansa e Wikimedia)

Il carteggio epistolare fra Montale e Solmi, amici e rispettivi lettori di fiducia

Matteo Marchesini

Le 338 lettere scambiate tra il 1918 e il 1980 fra due amici e intellettuali alla ricerca della loro identità

A Parma, nell’autunno del 1917, s’incontrano due allievi ufficiali con ambizioni letterarie. Il più anziano, un genovese di ventuno anni, si chiama Eugenio Montale, e ha già scritto i versi di “Meriggiare pallido e assorto”; il più giovane, un diciottenne torinese di ascendenze emiliane, è Sergio Solmi, attratto dagli opposti esempi di Gozzano e Rimbaud. Poco dopo, Montale viene mandato in Vallarsa, ricordata negli “Ossi” e nei “Mottetti”, mentre Solmi combatte sul Montello, in un paesaggio veneto evocato a più riprese in prose liriche e poesie. Ma intanto l’incontro ha suscitato un’amicizia che durerà per l’intera vita di entrambi, cioè fino a quel 1981 in cui il poeta-critico e il critico-poeta si spegneranno a meno di un mese di distanza l’uno dall’altro. Di questo legame, che ha avuto un’importanza non trascurabile nella storia letteraria del nostro ’900, offre oggi una testimonianza preziosa “Ciò che è nostro non ci sarà tolto mai”, un volume Quodlibet curato da Francesca D’Alessandro e Letizia Rossi, che raccoglie 338 lettere scambiate dai due amici tra il 1918 e il 1980 (la maggior parte di Montale, perché molte di Solmi sono andate perdute) più un’appendice di testi giornalistici non firmati e attribuiti agli autori grazie al carteggio. 

   

Il grosso delle lettere risale al periodo che va dal ’25 a quel 1933 in cui Eugenio conosce altri due interlocutori cruciali, Gianfranco Contini e Irma Brandeis, protagonista dei suoi versi stilnovisti. La complicità tra i ragazzi scampati alla carneficina, afflitti dalla “bolletta” e da malanni psicosomatici, si fonda su una comune tendenza alla moderazione e all’empirismo. Di qui l’iniziale diffidenza per Gobetti, che a un Montale già abituato a vivere “al cinque per cento” sembra un tuttologo iperattivo, e il misto di ammirazione e fastidio con cui parlano di un altro coetaneo, Giacomo Debenedetti, fin troppo brillante ma al contrario di loro instabile, volubile, poco equilibrato. La differenza tra Eugenio e Sergio emerge però dai modelli saggistici che oppongono alle astrazioni dell’idealismo: il primo sceglie il conservatore Emilio Cecchi, che riduce ogni tema a dimensioni domestiche, il secondo Alain, che ha orizzonti umani più vasti e mostra un più radicale impegno etico. Se l’atteggiamento di Montale, quasi ricalcando la parabola di Cecchi, passa dagli eccessi romantici a un malizioso understatement, Solmi mantiene un tono costantemente affettuoso e misurato: il suo è l’equilibrio di chi si è adattato presto alla provvisorietà della vita, e sa stare con “i piedi a terra e il capo tra le nuvole”, come annota il suo corrispondente e come ripeterà Saba in una famosa “scorciatoia”. Già a vent’anni, Eugenio si sente montalianamente un “vecchissimo fanciullo”, inetto sia sul piano pratico sia su quello spirituale, mentre Sergio si rassegna a studiare da avvocato. Ma nel frattempo tutti e due s’affacciano sulle riviste letterarie, confortandosi e aiutandosi a vicenda. Dopo aver fatto conoscere al pubblico Italo Svevo, Montale segnala più volte all’amico degli scrittori degni di essere discussi, da Moravia a Loria; e se nel ’25 Gobetti pubblica “Ossi di seppia” è anche grazie a Solmi

  
A questa altezza i due intellettuali, che si preparano a convivere con la dittatura da “bigi”, ossia da non allineati, iniziano a trovare la loro identità: Eugenio, appunto, con il suo primo capolavoro, e Sergio mettendo su famiglia, trasferendosi a Milano ed entrando alla Banca Commerciale, dove il cugino Raffaele Mattioli influirà sia sulla sua attività impiegatizia sia su quella critica. Montale invece riscuote uno stipendio solo nel ’27, emigrando a Firenze, dove lavora alle edizioni Bemporad e diventa poi direttore del Vieusseux. Si diradano allora, lettera dopo lettera, i nomi dei sodali liguri, come Adriano Grande e Camillo Sbarbaro, e s’impongono quelli delle Giubbe Rosse e di “Solaria”, i Vittorini e i Quasimodo. Termometro sensibilissimo della situazione culturale e tattico di notevole astuzia, Eugenio tesse presto una rete di relazioni italiane e internazionali. Quando si tratta di politica letteraria, i suoi messaggi a Sergio assumono una perentorietà quasi militaresca. Ma l’amico è per lui soprattutto il lettore di fiducia a cui chiede di correggere le poesie appena scritte. E in realtà entrambi i corrispondenti sanno dare l’uno dell’altro giudizi illuminanti. Solmi comprende subito che Montale vuol superare il frammento tramite un’eloquenza che non rimandi a D’Annunzio; e Montale nota che i versi di Solmi soffrono di un eccesso di coscienza, di una uniformità priva di attriti un po’ alla Cardarelli. Quanto al versante critico, secondo Montale Solmi è il migliore dei “militanti”, perché con la sua ragionevolezza pacata sa mettere “ordine dappertutto”; e Solmi loda fin dall’inizio la spigliatezza di Montale negli articoli brevi, indovinando che questa dote potrebbe procurargli “una sistemazione pratica”, come avverrà molti anni dopo quando l’amico lo raggiungerà a Milano impiegandosi al Corriere della Sera. 

 
Ma al di là della luce che getta sui due autori, il carteggio è una miniera di osservazioni acute su fenomeni culturali che ci riguardano ancora. Concludiamo citandone una di Montale. Nel ’33, al ritorno da un viaggio in Inghilterra, proprio mentre compone alcuni dei suoi versi più celebrati, Eugenio scrive beffardamente a Sergio: “Leggendo un po’ più del solito in inglese mi sono persino convinto che la nostra è la più recente delle lingue morte e che una buona colonizzazione barbarica qui risolverebbe tutti i problemi nel migliore dei modi”. 

 

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