L'ossessione degli italiani per la casa
Siamo cresciuti col mito del mattone, ma in pochi possono permetterselo. E allora sublimiamo guardando e desiderando gli appartamenti altrui
L’altro giorno un argentiere di Firenze ha appeso in negozio un cartello con scritto: “Severamente vietato parlare di Covid”. Ogni tanto ci vorrebbe un avviso del genere alle cene che dice: “Severamente vietato parlare di case”. Accade appena ci si siede al ristorante, davanti a un aperitivo, o mangiando un cinese da asporto. Accade soprattutto tra i Millennial – che iniziano a comprare o che si lamentano di non poterlo fare – e i quaranta-cinquantenni, Generazione X – che hanno comprato e iniziano a restaurare o a investire o a pentirsi di non aver preso quel trilocale a Testaccio o a Nolo prima che diventassero quartieri ambiti.
In giro per l’Italia in questi giorni autobus e tram sono ricoperti dalla campagna di Immobiliare.it, sito per trovare case in vendita e in affitto. La casetta antropomorfa che fa da logo del sito ha un cappello da Sherlock Holmes e dice “Immobiliare, Watson!”. Durante la Biennale Architettura del 2021, evento simbolo del “ritorno alla normalità” pre-varianti, la gigantesca pubblicità sulle impalcature della chiesa di Santa Maria della Pietà era di Idealista, un rettangolo verde-lime più grosso della facciata del Metropole e visibile da tutto il bacino di San Marco. Idealista e Immobiliare.it si sfidano all’ultimo sangue per essere il sito più cliccato dagli italiani, con campagne diffuse come solo Campari, Apple o Dior solitamente fanno.
Di recente in uno sketch di Saturday Night Live la piattaforma di ricerche immobiliari Zillow, in una pubblicità-parodia, viene paragonata a un servizio a luci rosse. “Il piacere che prima provavi col sesso ora lo ottieni guardando case di altre persone”, dice la voce. Quando uno degli attori arriva quasi all’apice e chiama l’agente immobiliare, crolla l’atmosfera lussuriosa: “In realtà non voglio comprare”. In molti sono vittima del “fantasy real-estate scrolling”, di questa pornografia della casa in vendita. Sono sogni a occhi aperti, momenti di fuga tra una fattura e una mail. Forse, passando così tanto tempo online, fuggiamo in una realtà parallela virtuale ma che esiste fisicamente, che ha un valore economico nel lungo periodo, di investimento, e che potremo lasciare ai nostri figli, non ha l’inconsistenza à la Matrix del Metaverso di Zuckerberg.
Dopotutto, soprattutto in Italia, siamo cresciuti col mito del mattone come “bene rifugio”. Guardare annunci senza comprare è un’attività rilassante ed esaltante, si scoprono città e quartieri che non si conoscono, regioni in cui non vivremmo mai. Si studia la pianta di una casa e si pensa: “Qui ci metterei lo studio, e qui farei un open space, qui ci verrebbe un terzo bagno”. Ci si scambiano link con gli amici e si commentano gli infissi, le altezze dei soffitti, l’affaccio interno, l’esposizione a sud. Nella mia pagina degli “annunci salvati” su Immobiliare.it ci sono appartamenti a Porta Venezia, casali in Lazio, attici a Trastevere, bilocali terra-cielo a Calcata, ville in Liguria, monolocali con altana a Dorsoduro; su SeLoger quadrilocali con caminetto sull’Île Saint-Louis e pied a terre con giardino nel XI arrondissement. Ogni tanto mi ritrovo a guardare i prezzi di palazzi interi a Via Giulia, di casupole bianche in Grecia o alle Eolie, di brownstone nella Lower East Side, di fattorie poco fuori Buenos Aires. Sul New Yorker è stata pubblicata una vignetta dove due giovani, entrando dalla finestra nel salotto borghese di un signore che legge il giornale, dicono: “Ci lasci perdere, semplicemente amiamo dare un’occhiata ad appartamenti che non possiamo permetterci”. Chissà se, come tutte le dipendenze, anche per questa nasceranno delle cliniche di disintossicazione, un rehab sul real-estate scrolling, Immobiliaristi Anonimi: “Salve sono Giulio e non riesco a smettere di guardare attici da 24 milioni su MansionGlobal.com”.
Su Instagram e su Tik Tok impazzano le pagine di restauri, fai da te e non, del prima e del dopo di un bagno, di un cortile o di una taverna che cambiano look, oltre a video di case di miliardari e star che nemmeno Mtv negli anni 2000. Ma non è solo un pallino dei giovani, la colonna a destra di Corriere e Repubblica – regno del clickbaiting per boomer – spesso mostra la notizia del vip di turno che vende la sua Penthouse a Manhattan o la villa a Malibu per tot milioni. Appaiono notizie tipo: “Ecco la casa più cara del mondo, dove? In India”. Oppure: “Nel suo nuovo cottage Johnny Depp ha una stanza solo per il vino rosso”. E poi la televisione: non sarà certo un tema caldo come la cucina – sembra che ormai il canone si paghi solo per vedere gente che prepara da mangiare o che viene insultata dagli chef – ma esistono diversi programmi, la maggior parte anglosassoni, che parlano di abitazioni in ogni salsa e delle dinamiche lavorative, sociali e commerciali che circondano il real estate.
C’è “Interior Design Masters”, una sorta di X-Factor dei decoratori di interni; “Selling Sunset”, dove un gruppo di agguerrite agenti immobiliari vende proprietà di lusso in California; “House Hunters”, dove una famiglia si trasferisce all’estero e cerca casa, programma che ha almeno una quindicina di spin-off tra cui “Houseboat Hunters”, per comprare case galleggianti, e “Tiny House Hunters”, per case minuscole. C’è “Property Brothers”, Fratelli in affari, in onda da più di dieci anni su Cielo e su Sky, dove due bei gemelli canadesi, un agente immobiliare in cravatta e un capocantiere/impresario col caschetto da Village People, aiutano in ogni puntata una coppia diversa a comprare e restaurare la casa dei sogni. Anche qui diversi spin-off, tra cui uno sui ranch coi cavalli. Ci sono vari meme che prendono in giro coppie che in tv cercano casa in programmi del genere: “Io vendo elastici vintage online e mia moglie fa ritratti ai labrador su zoom. Il nostro budget è quattro milioni di dollari”. Ma a proposito di meme, uno dei più duraturi in materia è quello su “i miei genitori a 26 anni”. Nel pannello superiore i genitori a 26 anni dicono: “Dovremmo comprare una casa”, vicino c’è una splendida villetta a 50 mila euro; nel pannello sottostante la figura che rappresenta l’“io a 26 anni”, dopo aver comprato della frutta e delle tisane da NaturaSì dice: “Non mi riprenderò mai più finanziariamente da questa spesa”. Certo, come dicono i francesi “quand le bâtiment va, tout va”, quando il mattone va, anche tutto il resto funziona. Eppure sembra esserci una discrepanza tra stipendi e prezzi al metro quadro rispetto a venti, trenta, quarant’anni fa, quando i baby boomer si sono messi su casa, così si finisce per farsi comprare casa dai genitori o vendere case dei nonni.
Non ci stupiamo che sia un’ossessione sognare una propria capanna, in fondo è il luogo dove passiamo tanto tempo, dove teniamo le cose più care, dove sistemiamo i libri in bella vista, dove passiamo i momenti con la nostra famiglia, ma anche carapaci dove possiamo ignorare le regole esterne imposte dalla società, piccole repubbliche indipendenti con una propria costituzione. Ci sono puntate intere di “Seinfeld” o di “Friends” dedicate all’argomento, o libri come “Il parroco di Tours” di Balzac, stupenda descrizione del profondo desiderio di spazi abitativi altrui. La casa “non è soltanto una machine à habiter, diceva Gio Ponti nel ‘33. Però, in questo hype millennial, può nascondersi un modo per trovare e costruire una propria identità in un mondo traballante di relativismi e crisi quotidiane, fuori e dentro di noi. Aldo Rossi scriveva: non si può affermare che “la residenza sia qualcosa di amorfo”, anche perché la casa “rappresenta il modo concreto di vivere di un popolo, la manifestazione puntuale di una cultura” e “si modifica molto lentamente”. Non solo una scatola, ma una rappresentazione della nostra anima e dei nostri valori, oltre che del nostro ceto e dei nostri gusti. Ci sono eventi che possono accelerare questi processi di modifica dell’abitazione come rappresentazione dello Zeitgeist. Rivoluzioni industriali, guerre. O una pandemia globale.
Col Covid i discorsi alle cene si fanno ugualmente – quando si fanno le cene – ma qualcosa è cambiato nel rapporto con la nostra casa. Molti freelance, molti creativi, erano già in smart-working perenne prima che si chiamasse così. Al massimo andavano in un café – “perché non vai a scrivere da Starbucks come tutti gli altri scrittori?”, chiede Drew Barrymore a Ben Stiller in “Duplex”. Per molti però l’adattarsi al telelavoro e alla dad è stato un fenomeno inedito e violento. Alcuni hanno accolto questi arresti domiciliari con un sospiro di sollievo – “finalmente posso lavorare in pigiama!”, “niente più pendolarismo su regionali in ritardo!” – altri invece con terrore: single isolati o coppie esplose costrette a passare troppo tempo insieme, nessuna via di mezzo, per non parlare di chi non aveva lavori “da salotto”. Un periodo d’oro però per i voyeur che han potuto esplorare gli appartamenti degli ospiti di “Otto e Mezzo” o la cucina della professoressa di latino e giudicarne le piastrelle. Persone che sistemavano per mezz’ora quel pezzo di casa che si sarebbe visto nella call e chi su Zoom usava sfondi di isole tropicali – su Amazon si trovavano anche sfondi-libreria di cartone.
Sono tutte dinamiche che ormai conosciamo, entrate nella narrativa comune, su cui si faranno film per il prossimo decennio, almeno. Ma non ci sono dubbi che da marzo 2020 il rapporto con le mura domestiche si è modificato. Luca Molinari, architetto e direttore scientifico del M9 di Mestre, ha pubblicato un seguito al suo “Le case che siamo”, un e-book intitolato “Le case che saremo: abitare dopo il lockdown” (entrambi per Nottetempo). Se prima l’attenzione veniva posta sugli spazi pubblici e sulle metamorfosi della vita urbana, con la quarantena “le prospettive sono cambiate radicalmente. Non c’è angolo della casa che non sia stato raccontato, indagato, illustrato da decine di narratori provenienti da varie discipline, costretti a fermarsi nella propria abitazione e a condividere pubblicamente i mondi che tutti stiamo vivendo e subendo”, scrive Molinari. Basta vedere le copertine del New Yorker in questi due anni. “Appare magicamente annullato con effetto immediato tutto quello che sembrava stesse cambiando i paesaggi metropolitani globali attraverso una ‘shared economy’ fatta di Airbnb, Uber, locali con wi-fi e coworking/housing/living diffuso”. Per Molinari la situazione che si è creata è anche un’occasione per ripensare in chiave più sostenibile il rapporto uomo-spazi, come scrive nella prefazione del libretto “Casa”, appena uscito per Treccani Libri, dove si raccolgono le voci dell’enciclopedia e si mostra il cammino storico dell’abitazione e della sua relazione con la società, dalla casa greca a quella popolare. “La pandemia ha chiaramente dimostrato che non solo il modello abitativo attuale è insufficiente, per la maggior parte della popolazione, a vivere una vita sempre più complessa e stratificata; ma che la relazione tra casa e città è sempre più inscindibile e presuppone un cambio di visione che accolga un tempo di profondi cambiamenti”.
Il filosofo Emanuele Coccia, che insegna alla École des hautes études en Sciences Sociales di Parigi, dopo il successo de “La vita delle piante”, ha pubblicato in Italia nel 2021 “Filosofia della casa”. Nel libro, attraverso i suoi trenta e passa traslochi, Coccia pondera l’uso delle stanze, i significati, le energie, le forme per esplorare un addomesticamento delle cose, arrivando a enunciati filosofici come “lo spazio, da un punto di vista morale non esiste. Non lo incontriamo mai. Abitiamo in un mondo che è sempre popolato da altri esseri umani, da piante, da animali e dagli oggetti più disparati”
Il sottotitolo è Lo spazio domestico e la felicità. Anche l’invito di Coccia sull’uso abitativo è di cambiamento, ma ancora più estremo. Dovremmo trattare le case come trattiamo gli abiti, dice, “per considerarle un fatto psichico più che spaziale”. Dovremmo perdere ogni logica patrimoniale e patriarcale, e “imparare ad aborrire l’idea di abitare in un’unica casa, e dovremmo scambiarci le case come si scambiano i vestiti”, cambiarle con le stagioni. “La casa del futuro dovrebbe somigliare a una forma di estensione e radicalizzazione della logica incarnata in Airbnb”. E’ un pensiero profondo e liberatorio, ma – come molte idee che sfiorano il sogno – di difficile applicazione, almeno per gli accumulatori balzacchiani. Andare ad esempio a casa di un grande collezionista di libri, fotografie, opere d’arte e pregevoli pezzi di design che farebbero invidia alla Triennale, va a rafforzarsi il demone borghese sulla casa, si desidera ancora di più un momento in cui senza freni si potranno raccogliere, disporre e godere delle cose che si amano in un vasto e luminoso parallelepipedo di muri. A proposito di muri, scriveva Ettore Sottsass: “Nei muri leggo le storie antiche e le storie moderne, leggo le moltitudini passate che hanno acceso candele e fuochi al di qua e al di là”.