Memoria e destino
“L'orologio di papà e altri ricordi”. Un inno alla vita che è romanzo suo malgrado
La storia della famiglia Vogelmann. E le parole che dalla letteratura partono e alla letteratura tornano, dopo aver fatto il giro lungo della vita
Non più Shulim Vogelmann, ma 173484. Arrestato dalla polizia repubblichina mentre tentava la fuga in Svizzera con moglie e figlia, deportato ad Auschwitz dopo l’arrivo a Firenze dalla Polonia al seguito del fratello rabbino e l’ottenimento di un impiego nell’unico posto che ammetteva il riposo del sabato (quello del “correligionario” ebreo polacco Leo S. Olschki, fondatore nel 1909 delle – allora solo – tipografie Giuntina), a differenza della piccola Sissel e della sposa Anna Disegni fu ammesso tra i salvati per le illeggibili traiettorie del destino, ma anche in virtù delle sue conoscenze professionali: era utile alla causa tedesca e fu sfruttato come stampatore di sterline false. Quando tornò faticosamente alla vita e si risposò, si dedicò anima e corpo al lavoro e nel 1948 ebbe un figlio, Daniel Vogelmann, che nel 1980 fonderà la casa editrice Giuntina e intitolerà al nonno Shulim la prima collana, inaugurandola con un testo allora sconosciuto in Italia, La notte di Eli Wiesel.
Come venne a contatto con questo libro lo racconta Daniel stesso ne L’orologio di papà e altri ricordi (108 pp., 10 euro) che Giuntina ha appena pubblicato. “Era il marzo del 1980. Io ero abbastanza disperato perché ancora non sapevo cosa fare della mia vita. Avevo una vaga idea di pubblicare qualche libro, ma avevo paura”, racconta. E aggiunge: “Frequentavo spesso le librerie nella speranza di trovare il libro che mi avrebbe aiutato a vivere se non a salvarmi”. Parole che assumono un peso preciso, per nulla narcisistiche e di maniera e anzi, tutto il contrario: parole che dalla Letteratura partono e alla Letteratura tornano, dopo aver fatto il giro lungo della vita. Ed Eli Wiesel, per fortuna (e per salvezza) era lì, insieme ad altri libri a metà prezzo, nella veste forse un poco maltrattata che hanno i libri scaffalati alla bell’e meglio. E la storia prese il via. Quella editoriale, certo, perché quella della famiglia aveva conosciuto percorsi remoti e più complessi, impressi indelebilmente e in questo librino riversati con uno stile opposto a quel che ci si potrebbe immaginare. Stiamo parlando di un testo così bello che è difficile raccontarlo senza tradirne la delicatezza, perché come i fiori a impollinazione anemofila che spargono nuvole di polvere fecondante impossibile da afferrare, è costituito da atomi dell’impercettibile. Si tratta di una raccolta di ricordi brevi, molto libera, non eccessivamente lavorata dalla scrittura, disertata dall’enfasi e accolta in una forma di grazia naturale.
Sono improvvisi minimi per carta e matita, telegrammi dalla vita che hanno il pregio di raccontare persone e fatti di estrema concretezza lasciando al lettore la loro magia fragile, perché è sempre sul filo dell’inessenziale che, in equilibrio decisivo, cammina l’essenziale. E così (ri)prendono vita la Gilda, tata slovena e quasi-mamma; lo Zani, grande amico fattosi locuzione (“come direbbe lo Zani”, ritornello eterno); il cugino Maurizio che sposò una bella svedese; l’esuberante gioielliere Pigozzi (“Ricordo una sua famosa battuta: “Mangiai dodici fette di polenta e poi dovetti prendere un cappuccino perché avevo debolezza”. Poi invecchiò, faceva fatica a camminare e in breve tempo morì. Ora, per dirla con Ungaretti, forse io solo so ancora che visse”); Osvà che sposò una filippina e sparì; il rabbino che macina chilometri per raggiungere al mare un amico in crisi e arriva in spiaggia con la sua grande barba, la kippà e le frange del tallet in vista; via Ricasoli, sede dell’editore, e una storia toccante che la riguarda. C’è tutta la trama esile e determinante delle cose, in questo che è, in fondo, un romanzo suo malgrado: il romanzo di ciò che accade mentre pensiamo che non stia accadendo niente, e invece sta accadendo tutto, con le sue inavvertite e irrevocabili determinazioni. Un testo pieno d’amore per la vita che è la vita, per la bellezza che non conclama bellezza, e per tutta l’umana avventura, attimo che dura un attimo e settantaquattro anni.