La doppia vita del Sudtirolo
L’estraneità, l’ostilità, i pregiudizi tipici di una terra di confine. Ma anche la bella possibilità di sconfinare. Il libro di Grazia Barbiero sulla stagione dei ponti e non dei muri, tra anni 70 e 80, e un ricordo di Langer
Ogni tanto si scopre l’Alto Adige, cioè il Sudtirolo. Anche nei giorni scorsi, quando si sono guardate con occhio sbarrato le fiaccolate gremite di nemici del vaccino a Bolzano e Merano, e il protagonismo di No vax sudtirolesi nello stesso capoluogo d’oltreconfine, Innsbruck, mentre il governo austriaco decretava l’obbligo vaccinale. Nel 1983 Sebastiano Vassalli (1941-2015) viaggiò nel Sudtirolo per Panorama, e pubblicò due anni dopo per Einaudi un reportage intitolato “Sangue e suolo. Viaggio tra gli italiani trasparenti”. Il libro lasciò sconcertati lettori e lettrici della penisola, messi di fronte a un quadro in cui i cittadini di lingua italiana venivano descritti come immigrati mal tollerati, e ancora più sconcertate lettrici e lettori della provincia autonoma di Bolzano, che si vedevano trasferiti in un paesaggio esotico pressoché coloniale. Al di là delle polemiche roventi (Vassalli ci sarebbe tornato sopra trent’anni dopo, “Il confine. I cento anni del Sudtirolo in Italia”, per Rizzoli) l’episodio confermava la misconoscenza universale di quella mezza regione di frontiera.
Alexander Langer, il suo figlio esemplare, era persona di molta, troppa pazienza. Quando era via da casa, in Italia, ci raccomandava ogni volta di non sussumere l’Alto Adige nel Trentino (come continua a succedere, con minori danni, fra Friuli e Venezia Giulia), di non figurarsi che Trentino-Alto Adige sia confinante col Friuli-Venezia Giulia, come induce a credere lo slogan “Trento e Trieste”, e a imparare a dire, i più volenterosi, Alto Adige/Südtirol. Gli italiani avevano bensì moltiplicato le occasioni di intimità con la provincia, per ragioni di turismo invernale, estivo e di tutto l’anno. Ma restando sempre a distanza di sicurezza da complicazioni inquietanti come Andreas Hofer, il pacchetto di autonomia, la proporzionale etnica, gli accidenti topografici, le convenienze linguistiche. Ma la misconoscenza reciproca era (è?) in vigore fra gli stessi abitatori della provincia. “I tirolesi conoscono la realtà dei loro concittadini di lingua italiana (e dell’Italia in genere) solo attraverso lo stereotipo che viene offerto dall’informazione ‘tedesca’ (il quotidiano Dolomiten e le varie pubblicazioni della stessa casa editrice, pesantemente ipotecate dal partito dominante e quasi unico Svp). A loro volta gli altoatesini di lingua italiana e il resto dei cittadini della penisola sanno dei sudtirolesi quel poco e distorto che l’informazione ‘italiana’ fornisce loro. E così i reciproci pregiudizi crescono allegramente” – così Langer, 1985, recensendo d’impulso il “disastro” di Vassalli. Scriveva il tollerantissimo Alex: “Il metodo, con cui il libro è costruito, lo mette al riparo da ogni verifica critica e ragionata, perché è fatto con le paure, i pregiudizi, gli stereotipi, i luoghi comuni, le ovvietà alla cui luce ogni cosa vista o sentita o immaginata sembra confermare quanto si sapeva già prima”.
Grazia Barbiero è nata a Bolzano/Bozen nel 1951, è stata insegnante, si è occupata di disabilità, si è impegnata in politica venendo eletta, per il Pci/Kpi, a Merano e poi nei Consigli provinciale e regionale, per trasferirsi a Roma e lavorare dal 1999 al 2019 come consulente dell’Ufficio di presidenza della Camera dei deputati. Nel 1988 Alex, che l’aveva avuta collega in consiglio provinciale, scrisse per lei un affettuosamente scherzoso “epitaffio sulle soglie di un’altra e migliore vita”, descrivendola come “un’ambasciatrice della società civile presso il Pci molto piú che una portavoce del Pci presso la gente”. Toccherà a lei scrivere un vero epitaffio di Langer, e l’ha appena rifatto in pagine intense e vivaci. Barbiero ha infatti pubblicato un libro pensato e scritto contro le paure, i pregiudizi, gli stereotipi, i luoghi comuni, le ovvietà… Si intitola “Scenari in movimento. Gli anni Settanta e Ottanta in Alto Adige/Südtirol” (il sottotitolo è troppo limitativo), ed è edito da Raetia, pp. 279, euro 19,90. Barbiero ha scelto di raccontarsi attraverso le vite delle altre e degli altri, così che il suo è un registro appassionato di pensieri, iniziative, azioni, e delle persone che di volta in volta si sono adoperate per realizzarle, e si sono riconosciute le une nelle altre. Hanno scelto di vivere nel modo opposto a quello compendiato nel motto di Anton Zelger, assessore alla cultura e di lingua tedesca: “Più ci separiamo e più ci capiamo”. Motto che pretende di avere dalla sua un realismo politico, a scanso di guai peggiori: “l’Alto Adige/ Südtirol non è diventato la Bosnia”. (La Bosnia era partita da un motto analogo, e sta provando a ritornarci con Milorad Dodik e il secessionismo serbista di Banja Luka). All’indomani della lunga stagione in cui “ci si odiava e si saltava in aria” (e il terrorismo irredentista altoatesino fu il banco di prova della combutta fra terrorismo di destra italiano e apparati dello Stato), una nuova generazione, e specialmente il movimento delle donne, ripudiava l’idea del vivere “l’uno contro l’altro” – Gegeneinander – e non si contentava del vivere “l’uno accanto all’altro” – Nebeneinander – ma sceglieva di stare insieme: Miteinander.
E’ impressionante il censimento delle iniziative, dei gruppi, delle associazioni, che attraversarono la società civile in quegli anni: il frutto prezioso, l’altra faccia dell’estraneità e dell’ostilità, connotati tipici di una terra di confine, del conflitto fra muro e ponte, fra passaggio e chiusura. Della bella possibilità di sconfinare. La prima posta di questa sfida è la confidenza linguistica. Gruppi solidali e, tra le donne, sororali, inciampavano nella differenza di lingua, italiana, ladina, la tedesca-Hochdeutsch e quella del dialetto tirolese, usato universalmente nella vita quotidiana. Le attività sociali, gli asili, i sindacati, i gruppi femministi, il teatro, gli atelier e le mostre, diventavano anche luoghi di traduzione reciproca. “Alla Fiera di Bolzano, l’8 marzo 1978, Irmtraud Mair e Milena Cossetto cantano in tedesco e in italiano e poi, insieme, in spagnolo, in inglese, in dialetto tirolese e in altre lingue mediterranee”. Veronika Felder, raccoglitrice di canzoni e militante antimilitarista, era stata ripetutamente intimidita dai sedicenti “Giustizieri d’Italia”. Il giorno di Pasqua 1973, la data minacciata della sua morte, restò uccisa in un incidente rimasto senza spiegazione, quando aveva ventidue anni.
In quel 1973 le farmacie di Innsbruck davano gratis alle studentesse universitarie, comprese le sudtirolesi, la pillola anticoncezionale. “Per dare loro la possibilità di studiare senza complicazioni”, diceva l’organismo degli studenti austriaci. E’ memorabile una sentenza del tribunale di Bolzano, 1982: “Qualche iniziale atto di forza da parte dell’uomo, secondo una diffusa concezione, non costituisce violenza vera e propria, dato che la donna, soprattutto nella popolazione di bassa estrazione sociale e di scarso livello culturale, vuole essere conquistata anche con maniere rudi, magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo”. A Merano già negli anni 70 una militante dell’Udi e del consultorio Lilith, Fiorina Gabrielli, aveva formato il primo “Coordinamento degli immigrati” e, nei locali della scuola media, i corsi di insegnamento dell’italiano. “Vedevo il mondo girare attorno alla mia scrivania”. Grazie soprattutto al presidente della comunità ebraica meranese, Federico Steinhaus, e agli studi successivi di Sabine Mayr e Joachim Innerhofer, sappiamo che Merano “sarebbe stata un modesto villaggio e non il luogo di cura e di eleganza che ha sedotto l’Europa lungo un tempo infinito, se non ci fosse stata la comunità ebraica. Nel 1920 era venuto Franz Kafka per curare la tubercolosi e aveva denunciato il clima antisemita riscontrato nella città”. Molti ebrei avevano cercato rifugio proprio a Merano. Sparirono tutti, o quasi: spesso denunciati alle SS dai vicini di casa.
Fiorivano, dagli anni 60, le riviste bilingui e le radio libere. Dal 1997 uno dei protagonisti di allora, Arnold Tribus, pubblica un quotidiano in lingua tedesca, la Neue Südtiroler Tageszeitung. Poeti facevano sentire la propria voce, più forte quando si spegneva, come quella di Norbert Kaser, morto alcolista nel 1978, a 31 anni. Al suo funerale, a Brunico, Langer decise di “tornare nel Sudtirolo, che non si volevano altri morti, che bisognava fare qualcosa”.
Nel 1979 la classe dirigente decise di metter fine agli scambi inaugurati dagli studenti dei due licei di Merano, adiacenti e separati dalla lingua. Avevano scelto di trascorrere una settimana ciascuno nella scuola dell’altro. Le autorità dichiararono minacciato lo statuto dell’autonomia. Gli studenti manifestarono in città e a Bolzano. Finì che le autorità sbarrarono il cancello fra i due cortili, perché non fossero attraversati nemmeno durante la ricreazione. Allo stesso ottuso spirito di trincea appartiene il lungo ostinato rifiuto della Svp all’apertura di un’università bilingue. Solo nel 1997 arriva la Libera università trilingue – italiano, tedesco e inglese; e il ladino, parlato soprattutto in Val Badia e in Val Gardena, per le Scienze della formazione – a Bolzano, Bressanone e Brunico.
Il 1981 fu l’anno del primo censimento etnico nominativo e non più anonimo. Chi non accettava di riconoscersi in una delle tre etnie, italiana, tedesca, ladina, perdeva il diritto di candidarsi, insegnare, svolgere un lavoro pubblico, avere una borsa di studio, accedere alle graduatorie per l’assegnazione della casa… Nel maggio 1995, grazie a quella vergogna l’obiettore Langer, allora parlamentare europeo, fu estromesso dalla candidatura a sindaco di Bolzano, la carica che più aveva a cuore. Dopo il suo suicidio, compiuto il 3 luglio del 1995, la Cassazione bocciò la norma.
Nel 1983 Barbiero, poco più che trentenne, era stata eletta segretaria del Pci di Bolzano, una delle due segretarie di federazione donne – l’altra era Alfonsina Rinaldi, a Modena. Sono centinaia le persone che Barbiero scrupolosamente ricorda, legandole alle imprese che ebbero care e all’amicizia che le unì. Un nome trascrivo, per aver sentito da sempre nei miei passaggi l’ammirazione e l’amore che aveva meritato: Andreina Emeri. Dice Mimma Battisti: “Quanto ci siamo volute bene e rispettate noi donne del Kollontai e dell’Aied. Come ci siamo volute conoscere profondamente! Andreina era tra noi: la trainante. Era molto bella: un portamento fiero e una curiosità per il sapere, che le faceva accendere gli occhi. Era donna che cercava di unire, di fare gruppo… di far famiglia, e di famiglie ne aveva tante!”. Lei, della “Lista alternativa per l’altro Sudtirolo”, e Barbiero, entrambe consigliere provinciali, promuovono nel 1984 la Casa delle donne minacciate di violenza, molestate o violentate. La Provincia autonoma di Bolzano sarà la prima ad avere una legge sulla Casa delle donne-Frauenhaus, presieduta fino alla morte, nel 2016, dalla militante verde Helga Innerhofer. Andreina Emeri era morta d’estate, nel 1985, a 49 anni, mentre era in vacanza a Capo Nord.