Facce dispari

Marco Zurzolo, il sax dei Lazzari felici

Francesco Palmieri

Tra i sassofonisti più celebrati, amico di Elvio Porta e di Pino Daniele: "Lazzari felici è nata una mattina a casa mia". La collaborazione con Antonio Capuano che ogni mattina si tuffa e dice: "Io m’aggia tuffà a mmare e aggia murì accussì’

Poste agli estremi dell’alfabeto, la A e la Zeta sono le lettere più distanti. Ma non quando A sta per Amicizia e Zeta per Zurzolo (Marco), sessant’anni a luglio, uno dei sassofonisti italiani più celebrati, che ha preferito per un attimo e per la prima volta la scrittura alla musica in nome di un amico che se n’andò, povero e quasi solo, nel 2016: lo sceneggiatore Elvio Porta. A Zurzolo aveva lasciato otto “microracconti”, come piccoli spartiti che Marco ha raccolto in un libro assieme a personali memorie di altri affetti volati via presto: il fratello Rino, contrabbassista, e Pino Daniele, che segnò la loro vita artistica (e non solo).

 

Zurzolo, regalando tempo supplementare alla vita di Elvio Porta, ha ricucito quei brandelli assieme a un album di 14 tracce in Qr-Code nel libro ‘I napoletani non sono romantici’, uscito per Colonnese en attendant la fine della pandemia e la ripresa delle attività per il suo spazio artistico. ZTL (Zurzolo Teatro Live) è giusto dietro via Foria, la strada di Napoli che lo scrittore Luigi Compagnone definiva al contempo “così triste, così allegra”. Come gli assolo di sassofono che Zurzolo, mentre tiene lezione al Conservatorio di Salerno, sospende per il tempo di farsi intervistare. Così triste, così allegro.

 

I napoletani non sono romantici? Sicuro?

Per niente, diceva Elvio Porta. Sono emotivi, che è un’altra cosa, di un’emotività violenta e disperata che nasce da secoli di stress. Per questo a volte sono anche allegri, quando riescono a sfuggire all’angoscia. Quell’emotività si accumula e ti acchiappa al cuore, che a volte ti tradisce come nel caso di Elvio Porta, Pino Daniele e Troisi.

 

Perché ha pensato di pubblicare i ‘microracconti’ di un amico?

Elvio preparò gli otto brani, che ho soltanto titolato, con uno scopo pratico: erano destinati agli attori di ‘Mi manda Picone’, il film di Nanni Loy. Glieli faceva leggere prima di girare, per calarli nel giusto stato d’animo. Specialmente Giancarlo Giannini. Avrebbe voluto unirli in uno spettacolo, accompagnati dal sax, con una composizione che avevo intitolato ‘A Bruno’ in omaggio a un medico sassofonista scomparso: Bruno Rotoli, che mi lasciò in eredità il suo strumento.

 

E poi dice che i napoletani non sono romantici… Ci regala un ricordo di Pino Daniele?

La persona più emotiva che abbia conosciuto. Aveva vissuto tutte le difficoltà della strada su quella linea sottilissima tra il fare qualcosa di buono o essere un niente. Un ragazzo scorbutico, grosso, con un paio di occhialoni. Nessuno avrebbe puntato una lira su di lui. Ma come Raffaele Viviani, decise di imparare da solo e ce la fece. Il ricordo più intenso? Una mattina io e mio fratello stavamo ancora a letto. Citofona Pino e chiede a mia madre se può salire, entra e dice a Rino: ‘Gennà, siente ’stu giro’. Si mette alla chitarra e mio fratello lo segue al contrabbasso: nasce ‘Lazzari felici’. Pino cantava le parole a caso, perché la musica arrivò prima del testo. Mamma portò il caffè e papà mormorava: ‘Questo ragazzo è roba buona’...

 

Ma non aveva un carattere facile.

No. Però penso che i personaggi difficili ti formino. Per esempio Luca Barbareschi: nessuno è contento di lavorare con lui, forse anche per pregiudizi politici che a me non fregano nulla. Con Barbareschi mi sono trovato benissimo, come con Roberto De Simone e Antonio Capuano, altri tipi particolari.

 

Lei scrisse, per Capuano, la colonna sonora di ‘Polvere di Napoli’.

Il Capuano ritratto da Sorrentino in ‘È stata la mano di Dio’ è proprio quello vero: un uomo libero di totale onestà, che forse non è stato capito abbastanza. Fa il bagno a mare tutte le mattine dell’anno. Mi disse: ‘Io m’aggia tuffà a mmare e aggia murì accussì’. Ricordo che quando incisi il cd della colonna sonora, Paolo Sorrentino venne subito a prenderlo da me. Gli piaceva molto.

 

Lei ha scelto di dedicarsi al sax alto. Perché?

Mi diplomai in flauto al Conservatorio di San Pietro a Majella perché all’epoca non c’erano corsi di sassofono. Anche se negli anni ’70 il flauto lo usavano in tanti, dagli Osanna ai Jethro Tull ai Black Sabbath, l’ho sempre considerato uno strumento legato alla tradizione classica. A me serviva il sax e mi sono dedicato a un solo tipo, quello alto, perché la mia voce deve essere una sola e devo riconoscerla. L’importante è ascoltare tutto ma trovare la propria identità. Io ho la fortuna dei suoni di Napoli e quando m’alzo la mattina sento dalla strada l’odore del caffè e dei panni stesi. La bellezza degli aromi che vengono dai ‘bassi’ a quell’ora è incomparabile. Va tradotta in musica.

 

Il 5 marzo terrà al Teatro San Ferdinando un concerto in memoria di suo fratello. Quali altri programmi?

Prima di tutto la ripresa del mio spazio ZTL. Poi vedremo Napoli come cambierà dopo un decennio di ipocrisia ‘arancione’, che l’aveva trasformata in un paesone con feste della pizza e del baccalà. Il sindaco de Magistris non ha sentito il suono della città, ma se glielo dicevi ti attaccavano perché contestavi quel sistema. Dieci anni di amarezza. Adesso spero in una svolta culturale.

 

 

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