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“Tomás Nevinson”: il nuovo romanzo come una spy story

Giulio Silvano

Più forte dei cliché, la prosa di Marías rende cristallini i pensieri più fangosi

Dopo alcuni anni di inattività, dopo un congedo fumoso, Tomás Nevinson, figlio di un inglese e di una spagnola, cresciuto nell’elegante quartiere madrileno di Chamberí, pedigree oxoniense, viene ricontattato dal suo ex capo dei servizi segreti inglesi. Non ci pensa nemmeno a esser ritirato dentro quel pericoloso mondo di bugie, vite parallele, congetture, nomi fasulli, sacrifici e doppiogiochismi. Soprattutto adesso – siamo negli anni 90 – che il Muro è caduto e che non c’è più la vecchia sensazione di apocalisse nucleare, di fine del mondo. Ma Tomás finisce per cedere di fronte a tre foto di donne coinvolte in attentati dell’Eta. “E’ insopportabile rimanere fuori una volta che si è stati dentro”, gli dice il suo superiore. 

Il congegno usato in Tomás Nevinson, appena pubblicato da Einaudi – il “romanzo del lockdown” di Javier Maríassembra un cliché, certo. Una dinamica classica, pulita, funzionale. Quasi un McGuffin hitchcockiano. Ma Marías è proprio bravo in questo, nel prendere i cliché e nell’andare a fondo, con calma, negli animi dei personaggi, rendendo cristallini i loro pensieri più fangosi, più sordidi, tanto che ci si dimentica dei congegni da spy story, da film d’intrattenimento d’ispirazione fleminghiana. Non c’importa più dei cliché, perché non si resta mai sulla superficie, con Marías si va oltre la teoria dell’iceberg, ogni pezzo di ghiaccio psicologico viene messo sotto la lente dell’autore. Anche i topoi narrativi subiscono lo stesso meccanismo attraverso una narrazione generosa del pensare.

 

La morte è un caso esemplare, è un tema che appare quasi sempre nei suoi romanzi, come motore, come inevitabilità affabulatoria per attirare il lettore; è sufficiente nominare Domani nella battaglia pensa a me o Un cuore così bianco. In Tomás Nevinson basta l’incipit: “Ho avuto un’educazione all’antica, e non avrei mai creduto che un giorno mi si potesse ordinare di uccidere una donna”. Una frase del genere, per quanto non si tornerà sulla questione per parecchie pagine, è capace di creare una trepidazione che ci accompagnerà per tutto il libro. Non è una scintilla, è più un proiettile inserito nel tamburo della pistola, sappiamo che è lì, silente e, anche se non ce lo ricordiamo, sentiamo inconsciamente uno spettro insidioso che aleggia. Sempre il solito discorso di Cechov: se una pistola appare in scena prima o poi dovrà sparare. Marías dà giustamente molta importanza agli inizi, e infatti il secondo capitolo comincia con la frase: “Il solo passo che conta è il primo”. E’ vero nella vita e nella letteratura. Più avanti scrive: “Ma chi ricorda gli inizi di qualcosa, quando è passato tanto tempo?”. Anche questo è vero. “Il tempo sopprime il tempo”. Prese singolarmente queste verità potrebbero sembrare contraddittorie, eppure nella piacevolmente verbosa prima persona dell’ex spia, cioè nella bravura dell’autore, riescono a convivere, a trovare il loro spazio. 

 

Tomás Nevinson non è propriamente un sequel di Berta Isla, pur riprendendo il romanzo del 2017, ma è un’altra faccia della medaglia – si può leggere anche indipendentemente, se non si è troppo ortodossi. Entrambi hanno in copertina una persona che fuma, nelle pagine esce spesso l’amore per le sigarette; una volta Marías ha rifiutato un visiting a Oxford perché non gli era permesso fumare mentre scriveva. Vizi a parte, se Berta Isla era una disanima emotiva dell’attesa decennale per qualcuno che si ama, per l’inganno e l’autoinganno necessari a sopravvivere quando si sposa un agente segreto, qui si entra nel vivo delle dinamiche di spionaggio, di cosa vuol dire vivere il lato più buio della geopolitica attiva, dell’eroismo senza riconoscimenti. “La sola possibilità di giustificare una vita torbida è continuare a intorpidirla”.

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