un quadro di fede
Che fine ha fatto l'arte religiosa?
Se lo chiede il critico James Elkins, alla ricerca dello spirito là dove alcuni vedono solo razionalismo
“Lo spirito soffia dove vuole perché il vento viene di lontano”
Gianni Vattimo
E’ sotto gli occhi di chi sa guardare ed è incontestabile la visione della crescente distanza che separa arte e religione. Scuro ed evidente il vuoto lasciato dalla scomparsa senza remissione di opere d’arte religiose moderne dai libri, dalle storie dell’arte, dai musei e dal mercato, quasi per non dover patire l’imbarazzo di una presenza ingiustificabile. Si affronta in silenzio una cupa, totale assenza avvolta d’indifferenza. Ci si può convincere che questa misteriosa sparizione abbia da fare con l’idea che l’arte tutta sia già di per sé religiosa. Si vuol credere che l’artista nel dare corpo fisico, oggettuale alla sua creazione, in preda quasi a una trascendente tensione spirituale, si possa sentire sollevato dall’idea di dover ricorrere, reinterpretandole magari, a iconografie di natura espressamente religiosa. Si arriverebbe – in questo caso – a rendere evidente la convinzione che le pratiche dell’arte siano da sempre strettamente connesse a sentimenti mistici.
Questo genere di volontà interpretativa è operata da un vasto gruppo di studiosi e critici d’arte sicuri che la religione “non abbia mai smesso di accompagnare l’arte moderna”. Il flusso di pensiero contrario a questa visione si mostra più che certo invece del fatto che tutta la costruzione della modernità, l’affermazione delle idee di razionalità in molti ambiti della vita sociale ed espressiva, sia edificata su solide basi intrise di laicità. Come spiegare allora – a esempio – l’opera teorica ed espressiva di Vasilij Kandinskij, di Mark Rothko o di James Turrell che parlavano e parlano apertamente di religione, se non a patto di mettere in crisi le certezze legate al corpo dell’arte moderna come territorio apertamente ed esclusivamente laico? Proprio da queste contraddizioni si può iniziare a seguire, per comprendere, gli intricati percorsi storico-artistici ed estetico-filosofici che sono il corpo del nuovo saggio di James Elkins Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea, apparso nella recentissima traduzione di Luca Bertolo e Giuditta Gentile per i tipi di Johan & Levi.
Storico e critico d’arte statunitense con studi alla Cornell University, prestigiosa università che Elkins ama ricordare dista appena un quarto di miglio da Ithaca, New York, città in cui è cresciuto. Docente di Storia dell’arte, Teoria e Critica alla Scuola dell’Art Institute di Chicago, in pochi anni sviluppa la sua vasta ricerca tra teoria delle immagini, scienza e natura. Profondi ed eccentrici i suoi saggi come What Painting is o The End of Diversity in Art Historical Writing e ancora How to use your eyes e What happened to Art Criticism? Le sue ricerche appaiono sempre volte alla decostruzione dei canoni della storia dell’arte accademica attraverso l’utilizzo di una prospettiva originale e interdisciplinare. Elkins intanto pone in esergo al suo saggio un paio di citazioni che mettono a confronto due inconciliabili posizioni. L’una che pretende l’arte possedere sempre, e da sempre, valori religiosi, la seconda, al contrario, essere l’evidente specchio della totale assenza di spiritualità religiosa.
Come spiegare Kandinskij, Rothko o Turrell, se non a patto di mettere in crisi la certezza dell’arte moderna come territorio esclusivamente laico?
E’ il romanziere americano John Updike a scrivere che “l’arte moderna è una religione assemblata con i frammenti delle nostre vite quotidiane”. Un modo chiaro e bruciante che dà corpo all’idea che l’arte possa aver colmato il grande vuoto lasciato dal calo di spiritualità rintracciabile nei diversi dogmi religiosi. Lo storico dell’arte inglese T. J. Clark, al contrario, parla di compiaciute sciocchezze di chi propone l’arte come surrogato della religione.
Questa contrapposizione, all’apparenza insanabile e decisiva, rivela oggi caratteri sempre più incerti, profili sfumati. Vattimo lo pone in evidenza nel suo saggio per la discutibile mostra “L’ombra della ragione” tenuta nel 2000 alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, in cui scrive di come “anima contro forme, Kultur contro Zivilisation (…) si è andata sempre più assottigliando sino quasi a dissolversi”, dato che a esempio “certi ambiti delle scienze sono proprio quelli che sembrano raggiungere i confini dello spirituale più remoto e originario”. Si devono ricordare affascinanti esempi di arte apertamente religiosa in ambito moderno. La Chapelle du Rosaire di Matisse a Vence, quella di Cocteau a Villefranche-sur-Mer o di Rothko a Houston in Texas, il Roden Crater di James Turrell nel Painted Desert in Northern Arizona. Sono lavori in ambito contemporaneo, come le vetrate per la cattedrale di Reims di Sigmar Polke e molte altre ancora, opere che il critico però considera lavori di artisti laici che si sono “dedicati all’arte religiosa per convenzione” in un’attitudine che è consueta alla tradizione modernista. Se opere come queste fossero anche soltanto la punta di un iceberg, saremmo autorizzati a pensare che “là fuori c’è un mare d’arte religiosa che lambisce le sponde dell’arcipelago laico”. Contro il pensar comune, se può sembrare una grande novità la crepa nel pavimento – come “Shibboleth” di Doris Salcedo alla Tate Modern a Londra –, allora forse la “semplice committenza per una piccola chiesa di provincia, del tutto ignorata e trascurata dal mondo dell’arte” sarebbe una cosa davvero “genuinamente nuova”.
Forse la “committenza per una chiesa di provincia, del tutto ignorata dal mondo dell’arte”, potrebbe essere una cosa “genuinamente nuova”
Elkins parla di come lo storico dell’arte Daniel Siedell sia davvero interessato al modo in cui spettatori credenti possono interpretare opere d’arte non religiose per sapere se e cosa si può imparare da esse. L’idea di Siedell è che molte pratiche artistiche contemporanee “possono essere esperite e apprezzate in quanto espressione liturgica”. Atteggiamento quasi totalmente estraneo alla totalità di critici e studiosi d’arte che tendono a escludere qualsiasi analisi con implicazioni religiose persino in artisti come Bill Viola o Mark Rothko le cui opere sono intrise di aperta e religiosa spiritualità.
Elkins chiarisce da subito di voler usare la parola spiritualità in contrapposizione al termine religione e la considera una sorta di complemento, un atteggiamento fatto di credenze private, soggettive e non sempre comunicabili. Solo così la spiritualità può far parte della religione che invece vive di una dimensione pubblica e sociale e “richiede osservanza, ministri o rabbini, così come cori e cantori”. Esisteranno quindi opere d’arte spirituali senza essere religiose e artisti provvisti di fedi devozionali molto personali. L’autore precisa anche che per arte contemporanea intende tutto quanto si espone nelle gallerie, nei musei dell’avanguardia o che trova spazio di pubblicazione su riviste come Artforum, October, Flash Art, Parkett e non ha preclusioni nell’includere gli esiti di ciò che resta dell’arte concettuale, della performance e di tutte le ricerche più avanzate.
Più difficile circoscrivere il termine mondo dell’arte che non potrà essere solo quello delimitato dall’Art System, fatto di collezionisti, critici, curatori, case d’asta, agenzie di finanziamento e fiere dell’arte, ma dovrà comprendere anche “l’arte religiosa, il design, l’arte infantile, l’artigianato per turisti e l’arte commerciale in genere”.
Ormai non pochi critici e storici dell’arte hanno da fare con religione e spiritualità e trattano l’argomento in maniera autonoma e differente. Suzi Gablik, nota tra l’altro per il suo The Reenchantment of Art, è con Robert Rosenblum e Joseph Masheck tra coloro che prendono in considerazione la possibilità di saper valutare la spiritualità annessa alle opere d’arte, e raccontano la fatica di prendere posizione nei confronti delle interpretazioni essenzialmente laiche della cultura moderna e postmoderna. E’ sufficiente pensare alle forzature estetico-filosofiche nella lettura di molte delle opere dell’astrattismo originario – Malevic o Kandinskij per intenderci – e volutamente scoprire eluso l’entusiasmo spirituale e profondamente religioso che le alimentava. Paiono evidenti a Elkins i “primi segnali che un’interpretazione secolarizzata della modernità cominci a perdere terreno”. Per una serie di ragioni affiorano nella recente storiografia dell’arte americana chiari segnali d’interesse per la religione (Kymberly Pinder, David Morgan).
Elkins traccia un tragitto sperimentale fatto di cinque storie che sono altrettante posizioni dei suoi studenti all’Art Institute di Chicago
James Elkins mostra però chiaramente di non sapersi accontentare nel percorrere in luce di sola erudizione le intricate e vaghe strade attraverso i territori che intrecciano arte e spiritualità, e lo fa mettendo mano e pensiero alla via pragmatica, un tragitto sperimentale fatto di cinque storie che sono altrettante posizioni dei suoi studenti all’Art Institute di Chicago. Per lui sono storie e opere che “rappresentano in maniera esemplare i principali modi per combinare arte e religione”. Curioso sapere che gli studenti ammessi alla School of the Art Institute di Chicago in genere conoscono molto bene gli esiti delle ricerche artistiche più avanzate ed estreme in atto. Sanno del “Piss Christ” di Andres Serrano, degli stracci insanguinati di Teresa Margolles alla Biennale e, per quanto possano avere credenze religiose personali, evitano di produrre ed esporre opere che evidenzino il loro credo. Quando lo fanno si curano di operare in maniera nascosta, quasi privata, proprio come i cinque studenti scelti dall’autore che li considera capaci di “exemplify the major possibilities for contemporary art and religion”.
Ecco allora Kim che è alla ricerca di un’arte religiosa quasi tradizionale, Brian è per un’arte che critica la religione, Rehema pensa a un’arte che vuole creare una nuova fede, Ria lavora a un’idea d’arte che cancella tutto ciò che è falso nella religione e infine Joel che crea quasi involontariamente una nuova fede. Kim è un’artista coreana decisamente religiosa. Il suo lavoro generalmente in classe è fatto di grandi stampe serigrafiche e litografiche astratte. Un giorno osa mostrare a Elkins il suo vero lavoro. Si tratta di un dipinto che nella parte bassa mostra la terra carica di piccole figure dalle mani enormi tese verso lo spazio e una sfera luminosa bianca dalla quale sorge un’enorme mano protesa verso la terra. Un’altra opera mostra invece un pesce che nuota felice tra le onde. “Questo è un autoritratto” dice Kim, e poi “Io sono felice”. Elkins chiede se non le capita mai d’essere triste o confusa. “Non nella mia arte” e aggiunge “Ho letto Greenberg, Foucault, Barthes, capisco le loro idee ma io sono felice come questo paese”. Per Kim l’arte può essere religiosa e ottimista e nessuno le sa spiegare che la cultura della tarda postmodernità e tutta l’arte contemporanea non lo riescano a essere.
Rehema è una donna di trent’anni. Ricama, cucendo perline vitree colorate, un’icona alla russa che nel centro mostra, al posto del Santo, la Venere steatopigia di Willendorf, la piccola scultura paleolitica che è un simbolo di fertilità, status sociale e successo della donna. E’ un piccolo mosaico dai colori sgargianti per la quale l’autrice dichiara di essersi ispirata non ad artisti ma a scrittori. Parla e mostra alcuni libri tra cui The Art of Dreaming di Carlos Castaneda e Occidental Mythology di Joseph Campbell. Perché poi la forma di un’icona russa? Estrae da una busta una radiografia. “Questo è il mio seno”, dice, e pensa di trasformarla in una seconda icona, in un altare. Cristianesimo ortodosso russo fuso con la preistoria del femminismo, l’esposizione della radiografia per la creazione di una nuova religione. L’acronimo Nrm (New Religious Movement) è quello che va anche sotto il nome generico di New Age e raccoglie centinaia di nuove fedi che derivano da religioni storiche, culti, filosofie rinascimentali, filosofie neoplatoniche, la filosofia ficiana, la Kabbalah di Isaac Luria, la mistica chassidica, i culti egittofili. Si arriva allo spiritualismo vittoriano ed altre ancora. Rehema propone la creazione di un’arte come una nuova e fragile fede.
Brian si sente a disagio con la religione, la sua arte allora si concentra in opere in grado di criticarla. Il suo lavoro vuole farci intendere che “l’arte religiosa più interessante è in fondo un’arte critica ma di mentalità aperta, per così dire, capace di mantenersi in bilico sul dubbio”. Quelle di Brian sono grandi Cibachrome, fotografie sovradimensionate e tecnicamente molto professionali. I suoi soggetti? Elvis sulla croce che indossa un perizoma con nastri e carta stagnola, intorno lucine di Natale e Mylar iridescente. Elvis non è in fondo una sorta di Santo? Forse le opere di Brian più che dar vita a polemiche antireligiose ci vogliono insegnare a “ignorare la religione, invece di inveire contro di essa”. Se si vuole pensare a opere profondamente antireligiose si va a tipi come Andres Serrano, ma presto ci si accorge che gli artisti lentamente hanno trasformato la loro acredine verso la religione in un esercizio di rimozione e disinteresse. Anche il lavoro di Brian sta mutando verso estetismi vuoti infarciti di banali allusioni sessuali.
Intanto l’Art World si esprime con qualche smorfia digerendo il triste tempo delle super chiacchiere, cullato dall’arbitrio dittatoriale del prezzo
Certo, Ria non aveva in mente i pittori romantici Caspar David Friedrich e Otto Runge nello spogliare progressivamente la sua scultura in ceramica dedicata alle quattordici stazioni della Via Crucis. Dopo aver modellato una grande chiesa lentamente ha proceduto a cancellare altare, calice, candele, fiori, il coro, l’organo. Poi ancora tutto il resto, banchi, confessionali, sino a trasformare il lavoro in un traballante e astratto edificio d’argilla, privo anche delle statuine a indicare le quattordici stazioni. Una colata di smalto infine ha avvolto e trasformato l’opera in modo irriconoscibile. Una cancellazione progressiva come per eliminare tutto quelli che riteneva elementi falsi ed esornativi della spiritualità religiosa. Questi gesti indicano chiaramente il desiderio di andare verso l’essenza della religione, mentre altri artisti percorrono strade affini per renderla quasi un’entità irriconoscibile.
L’atelier di Joel ha pareti ricoperte di disegni di dimensioni varie e realizzati con tecniche diverse. L’icona però è sempre la stessa, quella di un cuore dalle svariate forme e soggetto a continue deformazioni. Colori, macchie, grafite ed altro usati per le variazioni di quell’immagine. Certo, Joel conosce i cuori di Jim Dine e poi Chardin e Giorgio Morandi, ma quello che per lui conta è la religione della ripetizione di quel segno, una religione inconscia s’intende, e a Elkins pare chiaro che quell’icona ossessiva rappresenti il segnale evidente di come egli fosse quasi “sul punto di scoprire e vivere una nuova fede”. Elkins è certo che Joel non avrebbe accolto nessuna lettura del suo maniacale lavoro come opera intenzionalmente religiosa o spirituale e nonostante tutto egli lo considera “un vero artista religioso”.
Davvero strano allora il posto della religione nell’arte moderna se Elkins spera di riuscire a dimostrare che tutti i tentativi di combinare arte e religione stanno nelle cinque categorie rappresentate dai cinque studenti di cui scrive. La ragione lo porta però a concludere il suo saggio con una dichiarazione pessimistica che getta ombre sul fallimento, l’impossibilità di “mettere insieme arte e religione” – dice – per lo meno “dalla fine del Modernismo internazionale, quindi dal 1945 circa”. Per lui “la spiritualità contemporanea e l’arte attuale sono compagne bizzarre” e forse proprio per questa ragione il suo saggio, utile per la discussione, ha il pregio di riportare alla luce i temi di una viva problematicità, rompere in qualche modo l’assordante silenzio che soffoca e allontana l’incanto, la profondità e il misticismo, alla ricerca di una nuova, possibile conversazione.
Intanto l’Art World non se ne cura e non invita davvero “quanti cercano nuove epifanie della bellezza”. Si esprime piuttosto con qualche smorfia digerendo in silenzio il triste tempo delle super chiacchiere condito sovente dal banale e dal risaputo, e giace impotente cullato dall’arbitrio dittatoriale del prezzo. Non lo stimola certo il concetto per cui “lo spirito è artista”. Nello slavo antico esiste a questo riguardo la parola vsechitrec, ovvero “artefice di tutto”.
Universalismo individualistico