I nuovi gladiatori. La lotta e la sua evoluzione nel tempo
Si chiudono in una gabbia ottagonale e combattono fino a farsi male. Antropologia di un’arte marziale spinta all’estremo
I comportamenti umani sono ambigui e lo sono anche dove meno dovrebbero esserlo: nel combattimento. Due uomini uno di fronte all’altro: armati di spada, di lancia e scudo o a mani nude, il momento della verità. In una mischia sotto le Porte Scee o in uno scontro sulla sabbia del Colosseo, in un duello dietro il convento dei Carmelitani scalzi o in un match sul ring del pugilato, o sulla materassina della lotta, sul tatami del judo, nella gabbia ottagonale dell’Mma, per stabilire chi è più forte o chi è più abile, chi è più feroce o chi resiste di più alla fatica e al dolore, chi ha più tecnica e chi ha più fiato, chi ha più muscoli e chi più cuore. Chi combatte per la vita e chi per gloria, chi per la patria e chi per se stesso, chi solo per soldi e chi solo per l’onore.
La letteratura ha celebrato la guerra prima dell’amore, l’epica viene prima della lirica. L’uomo ha imparato a combattere prima che a scrivere
La letteratura ha celebrato la guerra prima dell’amore, l’epica viene prima della lirica. L’uomo ha imparato a combattere prima che a scrivere.
Finché le tecniche del combattimento servivano per andare in guerra o per salvarsi la vita in una delle frequenti aggressioni nelle quali era facile cadere in epoche della storia più brutali, o diversamente brutali, le ambiguità non esistevano: un cittadino della polis greca o un civis romanus o il mercante di un libero comune dovevano imparare ad ammazzare e, più alto era il rango sociale che occupavano, più facilmente si sarebbero trovati nella condizione di doverlo fare. Un giovane nobile dell’undicesimo secolo cominciava da bambino un addestramento lungo anni per imparare a cavalcare, a muoversi dentro un’armatura, a usare un gran numero di differenti armi bianche e a lottare quando fosse stato disarcionato e avesse perso gli strumenti per offendere; un contadino del quindicesimo secolo poteva evitarsi tutto quell’esercizio cavalleresco perché doveva soltanto stare nei ranghi e abbassare la picca assieme agli altri per infilarla nell’inguine del fior fiore dell’aristocrazia guerriera quando fosse giunta a tiro, ma gli uni e gli altri – professionisti dell’arte della guerra o soldati semplici di un esercito di popolo – avevano un solo chiaro obiettivo, uccidere.
Con la pacificazione dei Tokugawa si cominciò a pensare il combattimento non più solo come una scuola di macelleria
Finché l’umanità ha celebrato quell’antica festa crudele c’era poco da farci su filosofie, poi le cose sono cambiate. Con la pacificazione dei Tokugawa, nel Diciassettesimo secolo, i samurai non potevano più andare in giro a scannare chi volevano. Probabilmente continuarono a farlo per un bel po’, ma senza la totale impunità di un tempo. Gli stili di scherma s’ingentilirono, si cominciò a pensare il combattimento non più solo come una scuola di macelleria ma anche come una forma di perfezionamento interiore, quasi una via di ascesi, quella che in giapponese si traduce nell’ideogramma do che compare nella parola ju-do e aiki-do. Si cominciò a vedere nella spada non più soltanto lo strumento che toglieva la vita, ma quello che la restituiva, non si fronteggiava più un nemico ma un compagno d’allenamento che smetteva di essere il rivale da sconfiggere, ma un sodale assieme al quale crescere e migliorare, progredendo di pari passo sulla via della perfezione, per la “mutua prosperità”, come diceva Jigoro Kano, l’inventore del judo, considerato in Giappone come un grande educatore, una specie di Maria Montessori.
Solo dalla conoscenza diretta arriva la consapevolezza di quanta cultura si trova nella lotta e più in generale nel combattimento
Ma Morihei Ueshiba, l’inventore dell’Aikido, l’arte marziale considerata più gentile, assolutamente non competitiva, praticata dai giovani come dalle donne e dagli anziani, Morihei Ueshiba che – vedetelo nelle fotografie in cui sembra il vecchio, saggio maestro del film Karate Kid, quello di “metti la cera, togli la cera” – negli ultimi anni predicava, è vero, l’amore e la fratellanza universali, e però da giovane aveva invitato i suoi allievi ad andare al porto per attaccare briga coi facchini perché verificassero nella realtà dello scontro l’efficacia delle tecniche che lui insegnava…
E il judo così educativo, così adatto a sviluppare nei nostri bambini la socievolezza e la fiducia in se stessi, andate a controllare che cosa diventa per i giovani che lo scelgono come pratica sportiva e vanno a fare le prime gare: una disciplina durissima che, se la fai veramente e perseveri nel tempo, a vent’anni ti ha ridotto le mani, la schiena e le ginocchia a pezzi.
Sono molti decenni che rifletto su questi temi, sulla finzione e sul realismo nelle arti marziali, sulla natura degli sport da ring e sul combattimento non sportivo, sulle tradizioni della lotta in oriente e in occidente, sui costumi, le abitudini, i riti degli esseri umani che si dedicano a percorrere questa via per qualche anno o per tutta la vita e lo fanno per aggressività o per timidezza, per curiosità o per ossessione.
E’ tanto tempo che m’interrogo sui mille paradossi di insegnamenti che oscillano tra l’annientamento del nemico e la fusione mistica con l’altro. E sono decenni che ho studiato, per quanto me lo abbiano consentito le mie facoltà intellettuali, e ho praticato, nella misura in cui me lo abbia permesso il mio corpo. Per questo ho letto con molta curiosità Sangue nell’ottagono. Antropologia delle arti marziali miste di Alessandro Dal Lago (Il Mulino), una curiosità acuita dalla prospettiva di Dal Lago, che è quella dello studioso e non quella dell’intellettuale praticante, perché “non è mai stato necessario partecipare a un festino di carne umana per studiare il cannibalismo, né arruolarsi in una crew di rapinatori per essere sociologi del crimine”.
Giusto. Ma perché una posizione così ovvia, così normale, così scontata, se applicata alle Mma sembra talmente strana da indurre l’autore a fare una precisazione del genere?
Perché, se è vero che il combattimento individuale nelle sue varie forme, e la guerra in tutti i suoi aspetti, hanno sempre attratto e ispirato gli scrittori, da un po’ di tempo a questa parte dire “faccio Mma” e raccontare che cosa si è provato a entrare nella gabbia per poi magari scriverci un romanzo o un memoir, sembra essere diventato una moda alla quale pochi vogliono sottrarsi.
Una risposta geniale alla questione mi venne data un giorno da un giovane maestro, che mi disse: “Vedi, queste discipline attirano due generi di persone totalmente opposte: animali che trovano nella lotta un modo per evolversi e individui molto evoluti che vedono, nell’animalizzarsi, il modo per raggiungere un equilibrio”.
L’Mma, acronimo per mixed martial arts, è uno stile di combattimento in cui ci si confronta in piedi con calci, pugni, ginocchiate e proiezioni e poi, una volta a terra, si prosegue con leve, strangolamenti e colpi fino al ko o alla resa. Lo preciso perché, quand’ero ragazzo io, si facevano discussioni interminabili su quale fosse l’arte marziale più efficace e tra i fautori del karate, del judo, del kung fu e del pugilato sorgevano dibattiti interminabili: ma che succede se un karateka, che alla fine si deve fermare prima di toccare il bersaglio, incontra un pugile che è abituato a dare e a ricevere pugni veri? E che succede se un pugile, che sa solo tirare pugni, incontra un lottatore capace di chiudergli subito la distanza?
Ecco, queste infinite, oziose querelles adolescenziali, che erano il proseguimento di quelle infantili su chi vincerebbe tra il leone e la tigre e rispondevano a un’idea dell’essere maschi ormai tramontata, oggi non esistono più. E se non esistono più è proprio a causa delle Mma che, su questo, hanno messo d’accordo tutti.
Gli altri interrogativi però restano: chi entra nella gabbia ha una qualche forma di rispetto per l’avversario o nessuna? Le minacce che i lottatori si rivolgono al peso sono vere o sono una pura concessione allo showbiz? Sono più dannose le Mma che consentono di martellare un avversario a terra o la disciplina potenzialmente più mortale resta il pugilato dove non si può colpire sotto la cintura ma la maggior parte dei pugni ha per bersaglio la testa? C’è solo violenza in questo genere di scontri o c’è dell’altro? Le regole arbitrali sono chiare o possono generare rischiose confusioni? Che società è quella che ripropone un modello di spettacolo che per tanti versi sembra assomigliare a una carneficina gladiatoria? Negli Stati Uniti i lottatori sono sempre e comunque reazionari trumpiani o ci sono eccezioni?
“Sangue nell’ottagono” di Alessandro Dal Lago (il Mulino) parte dalla prospettiva dello studioso e non dell’intellettuale praticante
Il libro di Dal Lago è documentato, tutti gli inquadramenti storici e i rimandi a una molteplicità di codici culturali e sottoculturali, dal cinema ai manga, sono registrati con precisione e ricchezza. Anche una serie di luoghi comuni diffusi persino nelle palestre sono rettificati in maniera esatta. Quello che manca e che lo studio soltanto teorico di un fenomeno molto complesso non può restituire perché viene solo dalla conoscenza diretta è la consapevolezza – che in questo interessante studio non c’è mai – di quanta cultura si trova nella lotta e più in generale nel combattimento. Il sorprendente assieme di competenze anatomiche, meccaniche, cinetiche che concorrono all’esecuzione di una tecnica e la meravigliosa concatenazione delle tecniche per cui a un attacco può sempre seguire una difesa e a ogni difesa un nuovo attacco e così via, teoricamente all’infinito, non possono che suscitare l’ammirazione, puramente intellettuale, di chi si applichi ad apprendere una di queste discipline. Vedere come una tecnica si evolva nel tempo (per quanto è dato di ricostruire), dal pancrazio greco agli ultimi decenni o addirittura negli ultimi anni, e nello spazio, dall’occidente all’estremo oriente, capire come l’applicazione della strategia e della creatività individuale possano riequilibrare differenze anche rilevanti di forza e di peso tra i fighter, inscrive di diritto molte discipline di combattimento nell’ambito delle arti.
Questo elemento, nel libro di Dal Lago, concentrato sul sangue, sulla ritualità, sulle implicazioni sociali, antropologiche e spettacolari degli eventi sportivi, non si vede. Importante sarebbe far capire che c’è. Questa natura artistica ha poco a che vedere con il machismo, con l’ostentazione narcisistica, con i problemi psicologici, con il furore, la disciplinata freddezza o la mancanza di prospettive di coloro che si dedicano alle Mma per ricavarne una fonte di guadagno o per farne un’esperienza letteraria.
Sia chiaro, nella società contemporanea saper combattere a mani nude non serve a niente, se uno non fa il buttafuori o non si arruola nelle forze speciali.
Indiana Jones che liquida con un colpo di pistola l’arabo che vorrebbe intimidirlo con il vorticoso maneggio della scimitarra ha chiuso il discorso anche al cinema un bel po’ di tempo fa.
Ma come mi ricorda il mio amico Francesco Palmieri, scrittore e maestro di Kung fu, e conoscitore profondo di apologhi orientali: Zhu-ping Man imparò da Zhi-li Yi a uccidere i draghi.
Zhi-li Yi gli aveva detto: “Io posso insegnarti a uccidere le galline e ad ammazzare i draghi. Uccidere le galline a qualcosa ti servirà, uccidere i draghi non serve a niente. Tu che cosa vuoi imparare?”.