Poeta e populista. Quando Zavattini era ossessionato dal tema della pace
In libreria una raccolta di scritti del “pedinatore di realtà” per comprendere il rapporto dell'intellettuale emiliano con il grande tema che ha contrassegnato tutta la sua opera artistica
Mentre Putin si prepara a invadere l’Ucraina, fa uno strano effetto leggere “la Pace” di Cesare Zavattini, una raccolta di “Scritti di lotta contro la guerra”, editi e inediti, curati da Valentina Fortichiari e pubblicati da La nave di Teseo. Perché se in queste pagine del dopoguerra Zavattini appare ossessionato dal tema pacifista, non s’interroga invece quasi mai sulle condizioni della pace, sul fatto che può esserci anche sotto una dittatura, sui suoi rapporti con la democrazia. Non stupisce quindi che l’ex narratore campaniliano e surreale, coronato dal successo del suo cinema insieme fiabesco e neorealista, si avvicini al mondo sovietico, flirti coi partigiani della pace e ottenga il premio Lenin.
Negli anni 50 Za invita gli intellettuali a rinunciare a un po’ di poesia per la “propaganda”, e si augura che cinema e tv diventino “lo specchio del nostro tempo”. Negli anni 80, sposando la retorica post-ideologica, chiederà un’ora settimanale “di pace” nelle scuole per esplorare il concetto “in-ter-di-sci-pli-nar-mente”. Curioso destino dell’utopista, che sembra volere un mondo simile a quello che c’è già – solo più zavattiniano, impregnato di una lingua terragna che anziché l’engagement esige la “direttezza”. In realtà non è così; ma le parole lo tradiscono. E invecchiando Za lo ammette. A ottant’anni, nel film “La Veritàaaa”, osserva che se la guerra è una cosa precisa la pace non lo è, e confessa di non saperne quasi nulla. Forse potrebbe aiutarlo il bimbo che davanti a lui la definisce come “libertà di non essere comandato”.
Non c’è pace senza giustizia: ecco cosa manca al discorso zavattiniano. Ma se questi scritti sono preziosi è anche perché l’autore, indifeso e generoso com’è, ci lascia vedere le debolezze che tanti suoi colleghi hanno nascosto dietro armature di cavilli. Za non sa indossarle, quelle armature, perciò nei comizi si confonde subito; oppure fugge per la tangente del dettaglio, e allora la prosa s’illumina: il “pedinatore di realtà” (Fortichiari) è finalmente nel suo, come quando paragona la censura a un gioco dove i soldati dànno una sberla a un compagno girato di spalle, il quale voltandosi “si trova davanti a delle facce angeliche”. Per questa ragione, più felici degli interventi pubblici sono i testi d’invenzione.
Il pedinamento comincia subito nel primo, un “diario cinematografico” del ’44 dove Zavattini, nell’Italia liberata, progetta un film fatto d’incontri casuali, apparizioni fantastiche e sedute di autocoscienza nelle piazze. “Solo in questo momento” annota “gli uomini hanno una forza di sincerità che perderanno di nuovo prestissimo”. Qui sta il cuore della poetica zavattiniana, che punta a sorprendere l’istante in cui il quotidiano diventa meraviglioso e la verità appare come qualcosa di fisico, come un grido che contagia le masse.
Eppure il pezzo forte del libro è il meno immediatamente popolare, l’unico dove l’autore fa i conti con la propria falsa coscienza. E’ una pièce del ’59, e s’intitola “Come nasce un soggetto cinematografico”. Lo sceneggiatore Antonio lavora col fiato sul collo della moglie, dei produttori e dei censori. Appena fa virare il plot verso uno “sciopero”, i committenti gli abbaiano addosso: “Ci sono migliaia di altre parole che cominciano con esse: specchio, scimmia, salnitro…”. Antonio rinuncerà al suo status in una specie di suicidio. E di lì a poco anche il suo inventore proverà a uscire dalla propria pelle con alcuni esperimenti emozionanti quanto velleitari: il Cinegiornale della pace, il “non teatro”, il “non libro”… “Si ha il diritto di scrivere una poesia alla vigilia della guerra”? si domanda retoricamente Za in un abbozzo del ’68. Ma la risposta concreta arriva poche pagine dopo, ed è appunto una lirica stupenda che fa scordare tutti gli afflati tribunizi: “La guerra non c’è mai stata! / Io l’ho inventata! / Mi succede quando bevo. / Sono sul terrazzo che si vede il mare? / L’aria / di colpo si turba, va a male…”.
Con il suo amore tolstoiano per i semplici, e con la sua incessante sperimentazione pedagogica, questo sofista del naivismo è stato per certi aspetti un Brecht italiano, ovvero sentimentale. Nella sua opera matura, il populismo e la poesia riaffiorano di continuo l’uno dall’altra. Il populista ignora che la retorica affossa qualunque buona causa; ma il poeta lo sa. In “Straparole”, uno zibaldone del ’67, si trova in questo senso un apologo perfetto. Un uomo si affaccia al balcone ed esclama felice: “Come è bella la natura!”. Ma poi stringe il parapetto e alza il tono: “Italiani! Come è bella la natura!”. Dalla strada salgono gli applausi, e una folla scandisce: “Al-be-ri, al-be-ri”. Così, sotto i balconi dei dittatori, si sente spesso ripetere la parola “Pace”; anche mentre i dittatori stanno per fare la guerra, magari davanti agli occhi di un mondo libero poco abituato a riflettere sui costi della libertà.