l'intervista
Cancellare senza censurare. L'arte di Emilio Isgrò
"Le mie cancellature servono a creare, non a distruggere", dice l'artista siciliano. "È ora che l'Italia investa sull'arte contemporanea. Non c'è più tempo da perdere"
Palermo - Cancellare, cancellare e farlo ancora, usando il nero, il bianco, il rosso e poi di nuovo il nero. L’artista Emilio Isgrò, classe 1937, siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto, ne ha fatto la sua cifra stilistica e con quella tecnica ha un rapporto di lungo corso che lo ha reso uno dei punti di riferimento dell’arte contemporanea. Le sue opere sono dei veri e propri capolavori di poesia visiva che vanno a codificare e a riscrivere un processo di conoscenza che ha come fulcro la parola da cui ha origine il pensiero. “Cancello da una vita – spiega al Foglio - ma il mio cancellare non l’ho mai usato come forma di censura, ma come riflessione sul linguaggio umano. La mia è una forma di riflessione sulla realtà e comunicazione tra gli uomini. Il mio lavoro è il contrario della cancel culture: oggi sono in molti a chiedermi cosa ne penso e io sono diventato una specie di convitato di pietra dei misfatti di Don Giovanni”.
“Nel 2022 – aggiunge - il cancellare ha un significato più forte di quello che aveva nel 1964, quando cominciai a fare le prime cancellature, perché ci siamo accorti che un mondo che non cancella le parole quando occorre farlo, vuol dire che le usa a casaccio. Cancellare, quindi, significa riflettere”. Siamo a Palermo, la città che lo celebra con un importante progetto culturale della durata di quasi un anno, che può essere sintetizzato nell’espressione Isgrò Dante Caravaggio e la Sicilia, tre appuntamenti in altrettanti luoghi/simbolo della città: a Villa Zito (con la mostra Isgrò Dante e la Sicilia – catalogo Skira), all’Oratorio di San Lorenzo (dove è stato chiamato a reinterpretare a suo modo la Natività di Caravaggio ivi trafugata nel 1969, inserita dall’Fbi al secondo posto della sua Top Ten Art Crimes) e a Palazzo Branciforte dove, dal 5 marzo prossimo, sarà esposta Seme d’arancia su pietra siciliana, la sua scultura che è una grande metafora della cultura di quell’isola e della sua possibilità di rinascita.
Il suo cancellare “è un qualcosa grazie al quale si crea, ma non si distrugge”, precisa. “Guardando i testi di grandi scrittori del passato, da Dante al Manzoni, sono tutti costellati da cancellature e anche nella pittura è accaduta la stessa cosa. Si pensi a La tempesta di Giorgione: se si va a radiografare quella tela, ci vengono mostrate delle cose che nel quadro non ci sono. Si crea cancellando ed è semplicemente meraviglioso. Se, invece, come nel caso della cancel culture, si intende una cancellatura che distrugge, beh no, quella mi spaventa. Per mia fortuna, è impossibile cancellare una cancellatura (e ride, ndr)”.
“È chiaro – tiene a precisare - che il razzismo vada combattuto come lo schiavismo, ma se gli strumenti per combatterlo sono controproducenti, è pericoloso. La storia è figlia degli errori degli uomini e se non commetti errori, non puoi pensare”. “Cancellare, non uccidere” è il suo slogan, “ma queste sono le mie intenzioni, non di altri”. “Bisogna, però, tenere bene a mente che, purtroppo, la censura può esistere nelle migliori democrazie e tornare. Se la cancel culture avesse anche la più nobile delle intenzioni, si deve tener conto – citando Gide – che le buone intenzioni portano spesso all’inferno, che la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”.
La mostra palermitana – curata da Marco Bazzini e da Bruno Corà, promossa da Fondazione Sicilia, Amici dei Musei Siciliani, l’archivio dell’artista e la fondazione Lauro Chiazzese – ci ricorda che il dialetto siciliano era una delle basi fondanti della lingua italiana. “È un modo per ricordare anche che questo paese è fondato sulla cultura che va dalle Alpi alle Piramidi”, dice Isgrò. “Se uno è appena alfabetizzato, non dico colto, è legittimato a predicare lo sfascio di questo paese, ma non il contrario. L’Italia vive nella precarietà e ci vivrà ancora come ha già fatto in tutta la sua storia, ma ha saputo sempre raddrizzarsi nei momenti cruciali. Lo fece dopo la seconda guerra mondiale, inventando ad esempio il cinema con Rossellini, De Sica e molti altri. Oggi penso che è venuto il momento che l’Italia abbandoni sul piano promozionale un’immagine legata puramente allo stilismo e alla cucina - attività molte meritorie, per carità - per affidarla anche ai propri artisti che sono tra i migliori al mondo. Da artista, mi auguro che nei nuovi piani del governo sia contemplata la creazione di strutture museali che permettano tutto questo. L’arte non è una voce del listino di Borsa: l’arte è una delle voci più importante del cuore umano e dell’intelligenza del mondo, può aiutare un paese a crescere. Nessun paese può dire di essere grande se non ha una grande arte contemporanea. È giusto che l’Italia difenda gli Uffizi, la Scala, la Pinacoteca di Brera, ci mancherebbe altro, ma non basta: bisogna avere una grande arte contemporanea che non stia ferma a Fontana e a Burri - fanno parte del passato – e che vada avanti. Non c’è più tempo da perdere”.