La Roma di Montefoschi non è più solo luoghi ma anche cari oggetti
In libreria "Dell'anima non mi importa", una scrittura ipnotica e ammaliante che racconta l'estraneità dei personaggi a se stessi
Torna a ipnotizzare i suoi lettori Giorgio Montefoschi, con un romanzo iperrealista dove ogni emozione, ogni dubbio e pensiero vengono descritti attraverso un oggetto. Un paio di calzini, un gonnellino da tennis, dei boxer comprati al mercatino, quelle mutande con sopra i disegnini delle palme e gli elefantini, una valigia con dentro quattro giacche e nemmeno un paio pantaloni, un telo di spugna ruvido che esce dal gavone di una barca sulla spiaggia di Sabaudia, per avvolgere la protagonista, nuda dopo un bagno di notte, e privarla di ogni difesa davanti al suo compagno che le sfiora i capezzoli e scompare senza dire motto.
Il più teatrale dei narratori italiani nel suo nuovo romanzo Dell’anima non mi importa (La nave di Teseo) non solo mette in scena i Parioli, il quartiere residenziale romano dove da anni ambienta le sue trame, fra bulimici avvocati gelosi e stanche vestali prossime al tradimento perché in balìa di illusioni irrealizzabili. Certo, le strade che costeggiano Villa Borghese, via Michele Mercati, via Aldrovandi, via delle Tre Madonne sono sempre in primo piano. E pure piazza Ungheria col sagrato di San Bellarmino vuoto di fedeli, l’Hungaria dai leggendari tramezzini, il bar del Cigno con la Sacher della domenica. E in più ci sono anche i ponti sul Tevere, c’è Trastevere e pure l’Aventino. Ma oltre le strade e le piazze di Roma, Montesfoschi stavolta mette in scena le cose, gli oggetti, le case, i divani, le finestre, i pomodori ripieni pronti in tavola, il bollito e il brodo di carne, i libri e gli occhiali, sino a farne l’ingranaggio stesso del racconto, l’espediente tangibile per rappresentare tutto quello che non si dice, non si vede e dunque nemmeno si scrive, e cioè il desiderio represso, il pensiero recondito, il gesto sviato in extremis per soffocare la china scabrosa dell’anima e ritrovare la pace.
E infatti l’avvocato Enrico Rubbian, la moglie Carla – di vent’anni più giovane e patita di tennis – e la figlia Maddalena – universitaria testarda e capricciosa – vivono al piano terra di un villino di famiglia in via Mercati, con un giardino semi abbandonato dove però sognano di installare un gazebo e dove a Pasqua ricevono a colazione gli amici di una vita. Il piano di sopra con la sua terrazza che guarda su via Aldrovandi lo hanno dato in affitto all’ex praticante di Rubbiani, Stefano Villani, un penalista fresco di divorzio con cui Carla palleggia al Circolo degli Esteri.
La vita scorre apparentemente senza intoppi, fra passeggiate a Villa Borghese, messa della domenica, lettura del Corriere e del Messaggero, il rumore della circolare che sale e scende su via Aldrovandi sullo sfondo e i classici da leggere e da rileggere, Stendhal, Flaubert, Justine di Lawrence Durrell, ma anche la Montagna incantata, i Buddenbrook, e le Confessioni di sant’Agostino. Eh sì, perché il tempo non solo è insondabile e inconoscibile, ma per i personaggi di questo romanzo è sospeso, attaccato a un nonnulla: un incontro fortuito in treno, il balcone di un appartamento all’Aventino, una stanza dell’Hotel Sant’Anselmo e poi la spiaggia di Sabaudia, il mare del Circeo.
Oltre le cose sono sempre i luoghi, i viali del quartiere Prati, il monolocale in via della Scala a prendere il sopravvento sulle persone e sui personaggi, sui loro corpi e i loro stessi desideri sino a influenzarli, orientarli e governarli in forza di un cieco magnetismo materiale. E tutta l’abilità di Montefoschi, narratore di una materia inerte e senza scampo, sta nel gioco sottile e ammaliante con cui, suonando ogni gamma del correlativo oggettivo, riesce a raccontare l’estraneità dei personaggi a se stessi, e a restituire la traiettoria aleatoria di quei corpi in movimento, privi di anima.