Le ombre del caso McConville gettate su Gerry Adams, protagonista della pace in Irlanda
Un fatto di sangue di cinquant'anni fa raccontato in un libro che scava nel conflitto dell'Ulster. Gerry Adams, che dal '98 si è affidato in toto alla politica per le sue battaglie, fu davvero il mandante del rapimento di Jean McConville? Intanto la Brexit rimette in discussione accordi e confini tra Repubblica d’Irlanda e Regno Unito
Che Jean McConville fosse una spia britannica era una certezza per i Provos dell’Ira, e poco importava per loro, nel dicembre ’72, se fosse vedova e madre di dieci figli, tirati su con quel che riusciva nei miseri spiragli che le concedevano le periferie di Belfast. Andarono a prenderla a casa, strappandola letteralmente dalle braccia dei figli, che da quella sera mai più l’avrebbero rivista. Quel che le accadde dopo – nonché i ruoli e le responsabilità di chi volle che McConville divenisse la più nota delle “disappeared”, dato che i suoi resti saranno trovati solo nel 2003 su una spiaggia – è ciò che ha cercato di approfondire Patrick Radden Keefe nel suo libro Non dire niente (Mondadori), che è la ricerca svolta sul campo in quattro anni di lavoro, sette viaggi in Irlanda del nord e più di cento interviste, nonché un carotaggio angosciante del conflitto dell’Ulster.
La tesi è tanto semplice quanto, a tutti gli effetti, mai confermata: mandante del rapimento di McConville sarebbe stato Gerry Adams, che dalla presunta partecipazione all’Ira in gioventù è passato poi alla militanza politica nel Sinn Féin, partito che promuove l’unificazione dell’Irlanda. Niente di nuovo a dire il vero, per chi segue la cronaca di quanto accade dalle parti di Belfast – Adams nel 2014 è stato arrestato per quattro giorni e interrogato, per poi essere rilasciato per mancanza di prove ed essere quindi prosciolto. Lui, che a Keefe si è negato per offrire la sua versione dei fatti, ha sempre sostenuto di non aver mai fatto parte dei Provos, ma il libro vuole scavare più a fondo, e ruota attorno alle accuse di chi negli anni Settanta era figura apicale del movimento paramilitare repubblicano, su tutti Brendan Hughes e Dolours Price, lui a capo della Brigata Belfast, lei militante della primissima linea.
Nella vicenda McConville – ma è il dramma di più di un episodio di cronaca dei Troubles – tutto ruota attorno al silenzio e all’omertà, che dettano il titolo al libro, ripreso da una poesia di Seamus Heaney (“Whatever you say, say nothing”, “Qualunque cosa dici, non dire niente”). A rompere questo silenzio è stato qualcosa letteralmente di imprevisto, vale a dire il progetto del Boston College, guidato dal giornalista Ed Moloney: raccogliere un archivio orale relativo al conflitto nordirlandese facendo parlare ex militanti repubblicani e lealisti. Le deposizioni – tra cui quelle di Hughes e Price – sono state rilasciate in gran riservatezza, a patto che venissero rese pubbliche solo dopo la morte degli intervistati. Il progetto era ambizioso e voleva tutelare i testimoni, ma si rivelò compromettente quando la polizia britannica ha chiesto e ottenuto i nastri proprio relativi alla scomparsa di McConville.
Al di là delle responsabilità vere o presunte, il libro scandaglia il cinismo delle forze in gioco in uno dei conflitti più bestiali che il secondo dopoguerra abbia avuto, fa brillare i rari lampi di umanità (uno su tutti, padre Alec Reid, sacerdote del dialogo che sosteneva che “puoi incontrare Dio anche nel bel mezzo dei Troubles”), si avventura anche nell’ipotizzare chi effettivamente abbia sparato a McConville. E fa riflettere sulla tenuta del processo di pace, anche considerando il ruolo prioritario giocato da Adams per arrivare al Belfast Agreement.
Il politico nel libro appare sempre elusivo sulle sue responsabilità e i suoi ruoli, e l’assenza di voci in sua difesa è un punto sollevato da non pochi critici al libro. Keefe però scrive: “Politicamente sarebbe una follia non essere solidali con Adams. Avrà anche avuto un istinto di sopravvivenza da sociopatico, e c’è qualcosa di inquietante in lui mentre se ne sta sicuro sulla sua nave senza nemmeno voltarsi a guardare i compagni rimasti indietro, come Hughes. In realtà, però, è stata la storia a lasciare indietro Hughes. A prescindere dai suoi moventi spietati e dalle sue macchinazioni ingannevoli, Adams aveva guidato l’Ira fuori da un conflitto sanguinoso e ingestibile, verso una pace fragile ma duratura”.
Adams ha proseguito la sua lotta per l’unificazione dell’Irlanda anche dopo il ’98, affidandosi in toto alla politica. Che ora rischia di dargli ragione nel modo più bizzarro possibile, la Brexit che tanto mette in discussione accordi e confini tra Repubblica d’Irlanda e Gran Bretagna. Sebbene lui stesso abbia invitato a non strumentalizzare il referendum del 2016 per parlare di riunificazione, non sono pochi quelli che spingono, oggi, per una consultazione popolare in merito. “Sarebbe a dir poco paradossale – conclude Keefe – se il referendum sulla Brexit avesse come conseguenza accidentale e a lungo termine l’unificazione dell’Irlanda: un esito che trent’anni di massacri sconvolgenti e circa 3.500 vittime non sono bastati a raggiungere. In un certo senso, però, questo è il fulcro dell’eredità di Gerry Adams”.