Quadri di sangue e dolore. L'arte di Tracey Emin
Era la pazza di Margate, le sue opere intime e selvagge hanno sconvolto il mondo dell’arte inglese. La malattia non l’ha spezzata, e ora è tornata nella sua provincia disastrata per aiutarla a guarire com’è guarita lei
E perché non sarebbe benvenuta?”. Tracey Emin non è convinta della domanda, si capisce subito. L’idea che la malattia sia una fonte poco desiderabile di stimolo intellettuale non le piace, anzi, sembra indispettirla. L’esperienza è esperienza, l’artista inglese ne è avida e non riesce a essere severa neppure verso quella, terribile e vertiginosa, che l’ha travolta negli ultimi due anni: un carcinoma a cellule squamose della vescica. Una diagnosi che l’ha costretta a terapie pesantissime e a un intervento chirurgico radicale mentre nuvoloni neri sembravano addensarsi su tutti i suoi orizzonti. Terribile, certo, eppure “una parte di me è così tanto più felice di quanto fossi prima”, spiega Emin al Foglio, ora che le acque si sono calmate e che già dalla primavera scorsa gli esami hanno iniziato a dare un responso rassicurante: all clear, tutto pulito, la malattia ha voltato i tacchi, l’artista sta bene ma, signori e signore, non è più quella di prima e non intende nasconderlo.
“Forse è perché mi hanno tagliato via le parti marce”, osserva con una prospettiva decisamente benevola sulla lunga operazione di sei ore in cui 12 chirurghi, oltre al tumore, le hanno rimosso l’utero, le tube di Falloppio, le ovaie, i linfonodi, parte del colon, l’uretra e un pezzo di vagina. Un processo doloroso e lungo che lei ha raccontato con foto crude, parole ruvide e una sincerità mai levigata, anni luce da una certa retorica battagliera da celebrity che affronta una malattia e dalle comuni messinscene così poco plausibili alla ricerca dell’ambita authenticity. In una sorta di giro di vite di quello che da sempre è stato il suo lavoro artistico, quello raccontato da Tracey Emin è un percorso fatto di sangue, cose sporche, organi che vanno via, farmaci che ti salvano e ti fanno stare male al tempo stesso, sempre accompagnato dalla ribellione di uno sguardo fiero sprofondato tra i cuscini del letto. “Per via delle operazioni ho una disabilità, mi serve una sacca per l’urostomia e questo, da un certo punto di vista, ha cambiato la mia vita in maniera piuttosto drastica”, racconta Emin, che la sua bag rotonda di plastica l’ha fotografata spesso, a bordo piscina o sul bordo del lavandino, narrandone la scomodità – minaccia di esplodere, si riempie a tradimento, si sposta, non le permette di ballare come un tempo, e sì che era molto brava – ma senza mai perdere di vista quella vena di gratitudine che non si può non provare verso un assetto che comunque, nel bene e nel male, ti tiene in vita.
Non c’è nulla da nascondere nella rinascita di Tracey Emin, che non è fatta di pose plastiche bensì di foto in cui esibisce il suo bel volto da teppista, zigomi alti e bocca di sbieco, anche sotto la peggiore delle luci, con il Covid o qualche altra ragione a cercare di piegarla. Sotto il suo sguardo iperautobiografico, non c’è mai stato nulla da non raccontare, di cui non lasciare una testimonianza fotografica con i selfie scattati in ospedale, una sorta di prosecuzione ideale della sua opera più chiacchierata, “My Bed”, in cui il suo letto sfatto, tra preservativi usati e biancheria sporca di sangue, ha segnato un’epoca. “Mi ci è voluto moltissimo per riprendermi fisicamente e per me è impossibile bere e lavorare tutta la notte come facevo un tempo”, racconta, e dell’immagine di quelle notti di creazione folle sembra aver più nostalgia l’intervistatrice dell’intervistata. Ora il passo è cambiato, bisogna adeguarsi ed esplorare la nuova dimensione, l’autodisciplina e i suoi fasti, l’assenza di vino e altre scorciatoie. “Non posso perdere il controllo dentro di me”, non si può go wild con il corpo, “la mia vita è così tanto più calma e tranquilla”, e forse va bene così: sarà semplice e banale, ma essere vivi è troppo bello per non essere felici. E per una produzione artistica in cui la storia personale ha avuto un ruolo così centrale, un’esperienza tanto estrema non può non avere un riverbero forte.
E’ cambiata l’estetica di Tracey Emin? “Sì. Più cupa. Meno celebrativa, più triste, più pesante”. Si è fatta carico di quello che nella mente non ha più spazio, ossia quella darkness che da quando si è ammalata, nella funesta primavera del 2020, mentre il mondo si affacciava alla sua nuova dimensione di spazio pandemico, tende a presentarsi meno: ci sono troppe cose da fare, da vivere, anche i guadagni di una vita da gestire senza complessi, e pazienza se agli inglesi non piace parlare di soldi. A lei sì e non se ne vergogna.
E le energia di questa fase di rinascita sono tutte rivolte a un progetto artistico, e quindi inevitabilmente politico, che riguarda Margate, la cittadina del Kent in cui è cresciuta e in cui è tornata dopo la morte della madre, dopo il 2016, sebbene sia stata teatro di un’adolescenza turbolenta e drammatica, con uno stupro subito a 13 anni all’uscita da un locale e un’infelicità che l’aveva portata a cercare il suicidio nelle acque di quel mare scuro. Ex perla della costa inglese, località balneare fanée che come tante altre sue simili ha perso linfa e identità quando i britannici hanno iniziato a dirigersi in massa verso la Spagna grazie ai voli low cost, Margate sta vivendo una fase di rilancio da qualche anno a questa parte, da quando ha aperto la Turner Contemporary, una galleria grande e ariosa dalle cui sale si può ammirare quel cielo mosso e violetto così spesso ritratto dal grande pittore, e soprattutto da quando le famiglie londinesi stanche dei prezzi astronomici delle case hanno iniziato a trasferirsi alla ricerca di spazi più grandi e vivibili. Ha riaperto il parco dei divertimenti Dreamland, il lungomare è stato un po’ risistemato, sebbene continuino a prevalere le sale da gioco: le coastal town, i paesini costieri, sono stati a lungo terreni di caccia per i voti di Ukip, pieni come sono di una popolazione anziana delusa dalla lunga fase di decadenza e dall’arrivo di un’immigrazione europea, spesso polacca, in un momento di drammatica assenza di prospettive.
Tracey Emin ha deciso di dare il suo contributo al recupero di un posto che l’ha segnata tanto e cinque anni fa, insieme al suo ex compagno e gallerista Carl Freedman, ha acquistato un grande complesso di case vicino al mare. La sua metà, Emin l’ha convertita nel suo studio da tremila metri quadrati con un’abitazione privata – spazi ampi, chiari e luminosi, dalle foto verrebbe voglia di mettersi a dipingere – con archivio e piscina, da trasformare in una sorta di museo quando lei non ci sarà più. Non solo: a settembre ha annunciato di aver comprato anche altre proprietà che comprendono degli antichi bagni vittoriani e una piccola camera mortuaria da trasformare in 30 studi per artisti e studenti della sua scuola d’arte – TKE Studios, Tracey Karima Emin, il suo nome completo da cui trapela l’origine turco-cipriota – e in una Fondazione Tracey Emin aperta al pubblico, con un giardino di sculture e una scuola di disegno che dia ai bambini della zona quel tipo di esperienza e di accesso all’arte che di solito sono esclusiva dell’infanzia privilegiata delle grandi città.
“Margate sta attraversando una trasformazione al momento, una di quelle straordinarie”, spiega Emin al Foglio, osservando come “tristemente, circa la metà delle persone che ci vivono sono sotto la soglia di povertà”: una passeggiata vale più di mille statistiche, basta scendere dal treno per trovarsi davanti un palazzo brutalista di 58 metri da cui si ha senz’altro la vista più bella del paese ma che per anni è stato un guscio spettrale e derelitto, con una pessima reputazione, pochi appartamenti occupati e una serie di negozi vuoti.
Ora qualcosa sta cambiando, crisi e Covid stanno portando sempre più londinesi a ripensare il loro stile di vita e Tracey Emin è fermamente convinta che l’arte possa fare molto per cambiare un posto, una vita: a lei è successo, anche se Margate le stava solo stretta, era solo una provincia come tante, di quelle da lasciarsi alle spalle il prima possibile. “L’aspetto positivo è che c’è una forte comunità creativa e pionieristica, che sia di attività gestite da casa, piccoli ristoranti, studi d’artista, negozi vintage, la scena creativa sembra essere una forza che sta trasformando la città in senso positivo”, prosegue Emin, descrivendo una “Margate decisamente incontaminata”, con “bellissimi angoli di architettura”, dalle file di case vittoriane alle delicate costruzioni sul lungomare, alle stradine dalle curve delicate che scendono morbide verso lo spettacolo luminoso del mare, con il suo faro e il suo ponte e la Francia a un tiro di schioppo. “Sarebbe meraviglioso se si potessero investire più soldi nelle strade vere e proprie, con più alberi, pavimentazioni di pietra, migliore raccolta della spazzatura, meno merde di cane, la rimozione delle vecchie antenne satellitari arrugginite, e una soluzione per le case popolari davvero orrende in mezzo a Cecil Square”, prosegue con le idee sempre più chiare su quello che potrebbe essere Margate, la sua Margate, da far rinascere com’è rinata lei, attraendo studenti un po’ diversi dai Young British Artists dei quali Emin è stata una delle stelle assolute e dissolute, sempre criticata per la natura iper confessionale del suo lavoro, l’apparente leggerezza del suo discorso, i suoi comportamenti liberati e irriverenti: la nuova leva sarà fatta di ragazzi seri (niente musica a tutto volume), determinati (e assolutamente non fumatori e niente lavoretti part-time, gli affitti sono bassi, per due anni si sta lì per creare), pronti a esibire il loro lavoro insieme a quello della stessa artista (astenersi perditempo) e a trattenersi in città, in modo da farla diventare una sorta di Brighton, una di quelle rare città britanniche per le quali si possa dire serenamente di no a Londra. Un progetto che sa di utopia, perché no, di cosa fatta in grande, di volontà di lasciare una traccia profonda della ragazza che un tempo si autodefiniva “Tracey, la pazza di Margate”.
Tracce che vanno a sommarsi ai graffi e ai graffietti che Emin, grande amante dei gatti, si diverte a lasciare in giro e che da ultimo hanno colpito il premier Boris Johnson, che nella sua Downing Street costosamente rimodernata avrebbe messo in bella vista un pezzo che l’artista aveva donato dieci anni fa, ai tempi in cui David Cameron era tutto preso a trasmettere al paese un’immagine giovane e cool servendosi anche di un’artista invisa ai benpensanti. Si intitola “More Passion” ed è una delle sue scritte al neon, questa volta rosso, con doppia sottolineatura, nello stile di “I Want My Time With You” che accoglie i viaggiatori dal continente nella stazione di St Pancras. Emin non sopporta che la sua luce e il suo messaggio illuminino le feste che Johnson ha avuto la pessima idea – “bizarre”, dice lei – di ospitare in questi anni di restrizioni e “funerali al telefono”, come ha spiegato l’artista a Bbc Radio 4 con quella sua voce piccola, sottile, con un forte accento del Kent, in bilico tra giudizio e abisso, ostinatamente lontana dalle vocali vellutate della middle class. E ne ha chiesto senza mezzi termini la rimozione. “Non lo rivoglio indietro, visto che l’ho donato”, ha detto alla radio, ma “vorrei semplicemente che al momento fosse messo via, perché il neon è notoriamente legato a un’atmosfera da festa. Si trovano alle fiere, nei casinò, nei bar o in posti del genere e non credo proprio che n.10 abbia bisogno di incoraggiamenti da questo punto di vista”.
Per lei l’attuale governo avrebbe bisogno soprattutto di più compassione, di uno sguardo di rispetto verso la sofferenza enorme di questi anni. Il 2021 è stato un anno “maligno” per lei, mentre il 2022 è iniziato con un bel riconoscimento come il Whitechapel Art Icon Award e come per molti, con qualche giorno a letto con il Covid, “questa nuova maledizione” che, come spiega su Instagram in uno dei suoi post spontanei, poco editati, spesso pieni di errori di ortografia, intende rimandare indietro con il suo “scudo dorato” appena starà meglio, come tutte le cattiverie che le hanno detto, tutti i complessi che hanno cercato di farle venire per essere quello che è, il rispetto che dice di non aver avuto da parte della scena artistica. “Voglio tornare come un fantasma, ma voglio essere un fantasma felice”, ha detto al Financial Times, ma prima di questo c’è tempo, tempo per vivere con una sacca per l’urostomia e per fare progetti nel rispetto di quella stanchezza che ancora la costringe a fermarsi di tanto in tanto. Vivi forte, ti ammali, guarisci, rinasci, ricadi, ti arrabbi, fa parte di te, mentre le tristezze forse no, o chissà. In tutto questo a trascinarti, a tenerti sveglia, a ispirarti è sempre lui: “L’amore”, chiude Tracey Emin.