La letteratura italiana è ferma a Fenoglio, Manganelli e Chiaromonte
Dal Novecento al Duemila, qualcosa è andato storto. Non sembra esserci stato progresso e non solo nella letteratura. Nella canzone ci sono dei nuovi De André, Mina, Battisti, Paolo Conte? E nel cinema, dove sono i De Sica, Anna Magnani, Monicelli, Scola e Mastroianni?
Dobbiamo essere grati al cerimoniale degli anniversari. Se non ci fossero i calendari e le cronologie a farci esercitare la memoria, le nostre crescenti smemoratezze ci svuoterebbero il cervello. Limitandoci alla letteratura italiana del Novecento, abbiamo a che fare con il centenario della nascita di Beppe Fenoglio, Luciano Bianciardi, Giorgio Manganelli e Pasolini, nonché con il cinquantenario della scomparsa di Nicola Chiaromonte. Italiani, gli anniversari ci invitano alla lettura, o rilettura, o revisione di precedenti giudizi e passioni e antipatie.
Del più amato e odiato, ammirato o liquidato, cioè Pasolini, si continuerà a parlare molto. Se ne occuperà il prossimo numero di MicroMega e mi sembra di prevedere che verrà colta l’occasione per ribadire che quel poeta ha abusato del suo sentirsi poeta, qualunque cosa gli venisse in mente, rivelando ancora una volta che i poeti non capiscono molto di politica e che in sostanza sono nemici del progresso e di tutto il bene che ci regala. L’uomo è un animale “progressivo”? E chi si mostra innamorato di qualcosa che appartiene al passato non fa che sognare a occhi aperti? Il fatto è che l’irragionevolezza, o l’irrazionalità, o il preconcetto non sono monopolio né di chi si illude sul passato, né di chi si illude sul futuro. Realisticamente, in spirito “salomonico”, si potrebbe dire che nel corso della storia non si è mai acquistata qualche cosa senza perderne un’altra. Si tratta di vedere, con qualche precisione, che cosa si perde quando si guadagna. Prendiamo la motorizzazione, prendiamo la Rete, e facciamo un po’ di partita doppia: da un lato i problemi che hanno risolto, dall’altro i problemi che hanno creato. Tornando alla letteratura, quel pessimista di Leopardi non si sbagliò poi di molto quando disse che da Omero in poi non c’è stato progresso. E nessuno, mi sembra, ha fatto progredire invenzioni come la ruota o la forchetta.
Resto prudentemente alla letteratura e non so se offendo nessuno, o invece molti, se dico che rispetto a Fenoglio, Manganelli, Chiaromonte non abbiamo fatto molti progressi. E nella canzone? Ci sono dei nuovi De André, Mina, Battisti, Paolo Conte e Celentano? E nel cinema, dove sono i nuovi De Sica, Anna Magnani, Monicelli, Scola, Sordi e Mastroianni, Gassman, Tognazzi e Monica Vitti? Perfino uno spirito leggero e vagante (un po’ ossessivo) come Arbasino, da metà anni Settanta in poi non ha fatto quasi altro che rimpiangere il mondo culturale di quando aveva trenta o quarant’anni.
Mettendo da parte Pasolini, di cui in questo centenario si parlerà non meno che di Dante, mi pare che fra Manganelli, Bianciardi, Fenoglio e (spero) Chiaromonte ci sia abbastanza da leggere. La varietà non manca. Si passa dal maggiore narratore epico della Resistenza, Fenoglio, a un virtuoso dello stile inteso come rituale umoristicamente distruttivo nel quale la realtà realistica è neutralizzata: e questo è Manganelli. Entrambi anglofili, prendono dagli inglesi due qualità opposte: la passione dell’onestà (Fenoglio) e una testarda, grottesca stravaganza (Manganelli). Quest’ultimo, come disse Enzo Golino, ogni volta che scrive non fa che confermare la sua “propensione ad attirare il lettore nella trappola di sempre: l’omaggio al dio Nulla” e lo fa con una “spudoratezza che diventa persino banale, un ovvio ritornello”. Fenoglio invece, anche se non manca di umorismo, fa dire al suo famoso alter ego, il partigiano Johnny, di sentirsi “partigiano in aeternum”. Fenoglio morì a poco più di quarant’anni e solo post mortem, dopo aver avuto diverse delusioni editoriali, “diventa quasi improvvisamente un ‘grande scrittore’”, come ha scritto Piergiorgio Bellocchio, oltre a diventare “un autore per professori universitari”, filologi e critici. Gabriele Pedullà ha fatto molto per confermare e rilanciare l’importanza di Fenoglio nella nostra letteratura: dubito però che i suoi lettori siano davvero aumentati.
Lo stesso Bellocchio, nel suo libro di saggi letterari Un seme di umanità, subito dopo quello dedicato a Una questione privata di Fenoglio, ci fa trovare, non credo per caso, quattro pagine su Il lavoro culturale di Bianciardi, autore che considera quasi un fratello maggiore per la sua naturale (e provinciale) tendenza alla narrazione pamphlettistica e satirica. Bianciardi è apprezzato per la “fondamentale schiettezza” non così frequente nei letterati: “Nel suo atteggiamento e nella sua scrittura c’è sempre una lealtà, una naturale dignità […] Bianciardi appartiene alla generazione due volte ingannata, prima dal fascismo e poi dall’antifascismo: lo sa bene e ne ha parlato più volte”.
Quanto a questo, bisogna dire che Chiaromonte ha pagato cara la sua non minore schiettezza e dignità intellettuale. Ora finalmente la sua saggistica è stata raccolta in un Meridiano Mondadori dal titolo Lo spettatore critico, a cura di Raffaele Manica, la cui introduzione si apre con queste parole: “Tolta la cerchia degli ammiratori, la figura di Nicola Chiaromonte è in Italia quasi sconosciuta anche a coloro che, con un certo arbitrio sociologico o statistico, si chiamano persone colte”. È la solita storia: se non si viene riconosciuti e adottati dai partiti della sinistra e non si occupa un posto fisso nelle istituzioni culturali, in Italia non si riesce a esistere. Chiaromonte non era né un filosofo professionale né un autore di romanzi e quindi, anche rispetto ai suoi simili Silone, Orwell e Camus, essendo soltanto un puro e semplice saggista-giornalista, ha pagato doppiamente caro il suo essere al momento giusto, senza ritardi, un antifascista anticomunista. Apprezzato nell’Europa orientale ex sovietica e in America per aver collaborato alle riviste Partisan Review e New Republic, il nome di Chiaromonte non si trova nelle storie della letteratura. Il Meridiano cambierà qualcosa? Lo spero. Ma è tardi, sempre più tardi. Danni irreparabili sono già stati fatti nella trasmissione culturale dal Novecento al Duemila.