Carlo Goldoni sa sorprendere ancora

Enrico Veronese

Le Baruffe Chiozzotte secondo Damiano Michieletto e Giorgio Battistelli (al Teatro La Fenice di Venezia fino al 4 marzo) danno una nuova dimensione all'opera goldoniana

Lustrissimo, sior Michieletto. A cent’anni dalla rappresentazione scaligera curata da Franco Leoni, e a quasi 130 da quella fiorentina per mano del cavarzerano Tommaso Benvenuti, le Baruffe Chiozzotte di Carlo Goldoni tornano a godere di una veste lirica grazie al sorprendente adattamento che il regista dell’hinterland e il compositore Giorgio Battistelli stanno regalando in questi giorni alla Fenice di Venezia.

La prima mondiale dell’opera, martedì scorso, ha sprigionato un assieme di sensazioni positive, confermate dalle repliche di perfezionamento in calendario fino a venerdì 4 marzo: senza che il castello narrativo venisse a scricchiolare, dal testo originale del 1762 sono state espunte solo le audizioni delle testimoni alla rissa scoppiata per futile gelosia nel borgo lagunare. Contesto che il commediografo, osservatore minuzioso, conosceva bene per averlo vissuto personalmente in età giovanile, prima di diventare a sua volta coadiutore della cancelleria criminale e trarre l’ispirazione per il capolavoro dai processi reali, con tanto di soprannomi effettivamente esistenti nei registri d’archivio. Le “Baruffe” di Michieletto fondono il teatro nuovo di Goldoni - non più commedia dell’Arte e sulla strada per anticipare il romanticismo melodrammatico - con l’esigenza, della quale il brillante regista è portabandiera, di allargare la platea degli appassionati di lirica alle giovani generazioni, parlando il loro linguaggio scenografico e di costume senza stravolgere l’opera di partenza.

Il successo anche televisivo del suo “Rigoletto” d’avanguardia, infatti, ha spinto ancor più il 46enne di Scorzè lungo questa strada, e la lungimirante committenza del massimo teatro veneziano suona autorevole sigillo alla bontà dell’impresa: ecco allora i tre grandi ventilatori piazzati ad altezze irregolari dietro il proscenio, forieri di bora o di brezza (l’órdene de sottovento, il bocón de sirocco) che seguono il corso dei litigi, fino a placarsi quando il ragazzo Toffolo Marmottina decide di querelare i suoi aggressori. La concitazione degli uomini di tartana e delle donne di calle - troppo loquaci per tacere i segreti di Pulcinella - muove attraverso la seconda principale novità scenografica, ovvero pannelli componibili che sostituiscono le povere case e gli ambienti della cancelleria, capaci anzi di diventare essi stessi le inedite armi (là dove il testo prevede coltelli e sassate) brandite durante le plurime baruffe rusticane.

L’interessante esperimento di prosa, che inizia e termina con la stessa zucca oggetto del contendere, non sarebbe riuscito senza il parallelo successo delle partiture contemporanee ideate da Battistelli, recente Leone d’Oro alla carriera: l’andamento da colonna sonora non invade quasi mai la recitazione - ancor più complessa dato l’utilizzo dell’antico dialetto armonizzato - ma anzi ne contrappunta i momenti più tesi, i timpani alla ribalta ogni qual volta entra in scena il coro delle popolane e dei popolani a dar manforte all’una e all’altra fazione.

Toni forti ed espressionisti che traggono forza anche dalle vesti filologiche, le stesse in uso alle compagnie locali, alla cui fonte si era abbeverato Strehler per la sua storica versione del 1964: tenui quelle delle scarmigliate donzelle, pratiche e spartane addosso ai pescatori. Tra essi si staglia vibrante l’interpretazione del tenore Marcello Nardis nei panni di Beppo, come efficace è la resa dialettale del soprano Silvia Frigato nel ruolo di Checca: già musicale di suo, l’idioma di metà Settecento è stato assimilato in prolungate fasi di ricerca e studio e reso con proprietà, fedele alla volontà originaria e allo spirito di un luogo dove tuttora le generazioni lo praticano correntemente. Poco è cambiato, del resto, nella forma urbis e nel carattere della città, mai così sulla cresta dell’onda internazionale e seria candidata a capitale italiana della cultura per l’anno 2024 - all’inizio del mese l’audizione decisiva - per essersi mantenuta isola incontaminabile. Eppure universale è il messaggio di queste “Baruffe”, tradotte e portate in scena dalla Francia alla Romania, e che ogni anno tornano a casa i primi cinque giorni d’agosto: esempio di epica e orgoglio che a tutte le latitudini viene prontamente rinfoderato, assieme alle spade, quando si tratta di scendere a patti con l’amore, la responsabilità, la piena gioventù.

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