(LaPresse)

Verso l'anniversario

Uno, dieci, cento Pasolini

Andrea Minuz

Da dimenticare quello del “Palazzo”, di “Io So” e dei “Ragazzi di vita”. Affascinante il self made man nell’industria culturale degli anni Cinquanta, più attento al successo che alle manie di persecuzione

È passato un secolo dalla sua nascita, ma a questo centenario si arriva con il fiato corto, quasi impreparati. Sarà che il bilancio, il punto, la riflessione collettiva sulla viva e scottante eredità di Pasolini li facciamo ogni anno, da quarantacinque anni. Sarà che c’è una ressa di commemorazioni all’orizzonte: Fenoglio, Kerouac, Berlinguer, ma anche Gassman e Tognazzi, tutti centenari. E sarà di certo anche grande la confusione tra gli studenti della prossima, contestatissima maturità: “Fenoglio o Pasolini?”, “ma Pasolini è uscito due anni fa”, “ma quello era l’anniversario della morte”.

 

Perché con Pasolini non si sa mai. Pasolini torna sempre. Non conosce crisi, oscuramenti, rimozioni. Di saturazione oltre ogni limite di guardia, di rigurgito, d’indigestione di Pasolini, incluso quello “in salsa piccante” di Belpoliti, si discorre ormai da anni. Nella vertiginosa bibliografia pasoliniana, edificata su dieci Meridiani e una grande muraglia di saggi su Pasolini, intorno a Pasolini, con un po’ di Pasolini, senza Pasolini, ci sono naturalmente anche quelli “contro” Pasolini. L’antipasolinismo è una forza uguale e contraria al pasolinismo, dunque, componente essenziale del culto: il fastidio per i ritornelli, le lucciole, il Palazzo, valle Giulia, nasconde l’insofferenza per il Pasolini delle masse, quello dei fumetti e dei murales messicani al Pigneto, l’icona appiccicata sulle shopper di cotone riciclato, lo sciamano celebrato nei reading, nelle performance, su frasicelebri.it, o nella scuola di partito del Pd, “Pier Paolo Pasolini”, da un’idea di Massimo Recalcati. Chi è nato grossomodo quando lui moriva, appartiene anche alla prima generazione interamente pasolinizzata. Siamo cresciuti e diventati adulti con la religione del suo tempo e vari dogmi a seguire. Il primo, com’è noto, è che Pasolini aveva già immaginato e previsto tutto. Non dovevamo più pensare a niente, perché c’aveva già pensato lui. Come ha scritto Walter Siti, parlando del “mito” di Pasolini: “Se ci sono i profeti, noi possiamo smettere di sforzarci”. Non restava che aggirarci tra le macerie delle sue profezie, sempre funeste. Un’apocalisse secondo Pasolini, orrenda, spaventevole, senza catarsi o vie di fuga.

 

Anche nella “cura Pasolini” subìta in grandi dosi al liceo o all’università c’erano però cose poco chiare e in contrasto con la realtà dei fatti. Non si capiva come mai “l’illusione del benessere” e le smanie consumiste fossero sempre da condannare come colpa tremenda o sciagura, anziché considerabili almeno una tacca sopra la concretezza della povertà. Non si capiva la superiorità del mondo “paleoindustriale” sul nostro, e perché dopo tutti questi sforzi di modernità magari anche sgangherata, ma pur sempre faticosamente messa in moto, dovessimo tornare tutti al mondo contadino. Ma evidentemente mi sfuggiva qualcosa. Prima o poi ci sarei arrivato anche io (più fungibili, semmai, altre riflessioni, per esempio sull’Italia che “non è mai stata capace di esprimere una grande Destra”, inteso come “fatto determinante della sua storia recente”; ma di questo si parlava poco). Se invece c’era qualcosa che non era stato già previsto, si chiamava in causa il Pasolini distopico e controfattuale. Non c’è discorso, tema, dibattito che non preveda un “cosa avrebbe detto Pasolini se fosse ancora vivo”. Domanda sempre retorica, perché custodi e sacerdoti del pasolinismo, o semplici curiosi e appassionati, son convinti di saperlo già. A Pasolini, che mutuava versi dalle Black Panthers, sarebbe piaciuto il Black Lives Matter, ma sarebbe stato contro il MeToo, il green pass, la schwa, il Pnrr, i corpi “addomesticati dal potere” di Blanco e Mahmood, di certo assai contro lo Zan e, va da sé, coi poliziotti, anziché con gli studenti che esondano nelle piazze. Quasi mai però ci si domanda cosa diremmo noi, oggi, di Pasolini. Difficilmente gli perdoneremmo le sue scorribande notturne, l’Alfetta GT, gli editoriali contro l’aborto, il divorzio, il “fascismo dell’antifascismo” (come ricordava Pierluigi Battista ne “I conformisti. L’estinzione degli intellettuali d’Italia”).

 

Con il carico di haters che si trascinava dietro sin dal primo romanzo, Pasolini avrebbe poi sbancato i social a botte di shitstorm epocali (“quando giocavo a pallone, giocavo bene solo nelle partite esterne, fuori casa, un dettaglio utile per la sua interpretazione della mia persona”, diceva rispondendo a una groupie dalla sua rubrica su “Vie Nuove”). Ma naturalmente, Pasolini aveva predetto anche questo. “Dimenticare Pasolini” era il bel titolo di un saggio uscito ormai una decina d’anni fa di Pierpaolo Antonello, italianista di Cambridge. Sulla scia dell’insofferenza per il continuo, lamentoso, rimpianto per il vuoto lasciato da PPP, Antonello criticava il modello cristologico incarnato dalla sua vicenda e rigettava un’idea di impegno politico costruita sul “caso umano”, a spese del lato critico-razionale dell’argomentazione pasoliniana. Superare il Pasolini martire, insomma. Quello che aveva fatto della propria persecuzione l’unico, vero “strumento conoscitivo” della realtà. “Dovremmo chiederci se possiamo veramente rammaricarci che non ci siano più di queste figure nel panorama intellettuale italiano”, scriveva Antonello, “o se può essere invece salutato come emancipativo il fatto che non ci sia bisogno di martiri e di figure vittimarie così tragiche per continuare a condurre delle battaglie culturali o politiche”. L’argomentazione era lodevole. Ma contro il modello cristologico non c’è richiamo alla ragione che tenga. Ancora oggi, e forse più di ieri, il Pasolini di tutti, quello trasformato in “ideologia di massa”, è il Pasolini dell’“Io So”, con la “s” maiuscola, e del “Palazzo”.

 

Di una vastità e genericità mostruosa, come il “Castello” di Kafka, la metafora del “Palazzo” era chiaramente destinata a uno straordinario successo, anche come un grande prequel de “La Casta”. Ma la vera spina nel fianco per qualsiasi recupero razionale, pacato e anche utile di Pasolini è, com’è noto, il famigeratissimo “Io so”, tratto dal “Romanzo delle stragi” (quanta preveggenza editoriale nell’associare i termini “romanzo” e “stragi”, dunque affabulazione e ricerca della verità giudiziaria: se ne sarebbero serviti un po’ tutti, da Giancarlo De Cataldo, a Buzzi e Carminati, fino al “romanzo della trattativa”). L’“Io so” è un basso continuo che attraversa la società civile italiana da trent’anni almeno. Citato nel film di Marco Tullio Giordana, “Pasolini, un delitto italiano” (che è un po’ il nostro “JFK”), ripreso da Marco Paolini per il Vajont, o per i “Misteri d’Italia” da Carlo Lucarelli, suggellato da Saviano nel climax di “Gomorra”, incorporato da Ingroia nel titolo del suo omonimo libro sulla “Trattativa”. Anche Caselli, ex-magistrato, ora blogger del Fatto, celebrava pochi giorni fa l’“Io so”, come “inno alla libertà di stampa e al ruolo degli intellettuali”. Inno forse anche delle discussioni su Twitter: da “Io so, ma non ho le prove e nemmeno indizi” a “non sono un esperto, ma” il passo è breve. L’“Io so” come fantasma inquisitorio, nutrimento della cultura del sospetto, dell’antipolitica, del giustizialismo, del complottismo, dell’inutilità della prova contro le certezze dell’ideologia: Pasolini, un algoritmo italiano.

 

Il Pasolini che ci piace è invece un altro. Perché prima di diventare un santo e un martire, c’è stato un Pasolini che s’è intrufolato nell’industria culturale con una strategia e caparbietà ammirevoli. Un Pasolini assai poco profetico, meno noto di quello registico-poetico-polemistico. Un modello esemplare di carriera che andrebbe difeso, promosso, esaltato, se solo fossimo un po’ meno moralisti e affascinati dalla tetraggine della sua fine. E’ il Pasolini scaltro, spericolato, audace intellettuale che alla fine degli anni Cinquanta riesce a prendersi contemporaneamente una rubrica di corrispondenza coi lettori comunisti su “Vie Nuove” (“Caro Pier Paolo”), e una di critica cinematografica su “Il Reporter”, settimanale finanziato dal Msi, diretto da Adriano Bolzoni, ex-repubblichino e animatore del rotocalco “Gladio”, distribuito ai fascisti negli ultimi giorni di Salò. Anche grazie alla presenza sul “Reporter”, dove pubblicherà la celebre, formidabile lettura “cattolica” de “La dolce vita” di Fellini (ma prendendo anche varie cantonate e stroncando Germi e il Billy Wilder di “A qualcuno piace caldo”), Pasolini rafforza la sua immagine e prepara con astuzia e metodo l’esordio di “Accattone”. Ancora oggi ogni tanto si tira fuori lo “scoop”: ma come, Pasolini in un giornale di fascisti, un passo falso, un errore, una macchia. Con gran clamore, a metà anni Novanta, in pieno “sdoganamento” post-Fiuggi, Alleanza nazionale impugnò la collaborazione col “Reporter” come prova inconfutabile di un Pasolini di destra. Una lettura che però non tiene. Non perché ampi pezzi dell’opera pasoliniana non sconfinino nel conservatorismo mistico-trascendentale, ma perché il caso del “Reporter” racconta tutt’altro. C’è tutta la sua grande intelligenza tattica, il mimetismo, il senso della posizione. Pasolini è già imprendibile. E sa quel che fa.

 

“Il Reporter” nasceva infatti per rubacchiare lettori agli altri due rotocalchi culturali della destra, “Lo specchio” e “Il borghese”. Due giornali impegnati a dare addosso a Pasolini, sistematicamente, dall’uscita di “Ragazzi di vita”. In nome della concorrenza, la redazione gli dava dunque carta bianca per ribaltare le posizioni dei due giornali in fatto di film e costume. Anziché lasciare a destra il monopolio della distruzione della sua immagine, Pasolini si smarcava, rilanciava, confondeva le carte. Aveva identificato nei “rotocalchi” l’anello essenziale della promozione dei prodotti culturali. Così sul “Reporter” arriva a recensire con gran entusiasmo anche film a cui aveva preso parte come sceneggiatore, oppure si riprendeva la paternità autoriale di “La notte brava” di Bolognini, rivendicandolo come “suo” film. Ma soprattutto, il Pasolini degli anni Cinquanta è la dimostrazione di come una vasta cultura possa essere messa anzitutto al servizio del miglioramento del proprio tenore di vita. Giunto a Roma in fuga con la mamma da Casarsa, dopo lo scandalo di Ramusciello, finisce alla scuola media “Francesco Petrarca” di Ciampino con un unico obiettivo: uscire subito dalla miseria e da quei pochi metri quadri che condivide con “maman”.

 

La vocazione alla “coscienza civile” può attendere. Pasolini è disposto a fare tutto (“naturalmente non potevo scegliere con chi lavorare, casomai era il contrario”) e punta dritto su Cinecittà, il posto giusto per le sue manovre. Prova una comparsata nel “Sogno di Zorro” di Soldati (“i giornali non mi pagano, sarebbe una grande fortuna se potessi andare a fare il messicano in un film che sta girando Soldati”). Poi, grazie alle raccomandazioni di Bassani, si infila nel giro di sceneggiatori e letterati che lavorano a getto continuo per il cinema, senza troppe pretese o fisime d’arte e impegno. Grazie al talento, l’intelligenza, la tigna, una velocità di scrittura che lasciava sbalorditi gli altri sceneggiatori (“aveva una rapidità di scrittura superiore alla mia che pure ero considerato veloce”, diceva Ennio De Concini), Pasolini cavalca la fase espansionistica della nostra Golden age cinematografica. Sperimenta le logiche del cinema e dell’editoria in tutti i loro gangli. Intasca finalmente assegni con molti zeri, scrivendo film come “Marisa la civetta”, operazione costruita intorno alle curve generose della Allasio, mescolandoli con “Le notti di Cabiria” o “La dolce vita” di Fellini. Mentre compone “Le ceneri di Gramsci” sceneggia “Giovani mariti”, con Sylva Koscina e Franco Interlenghi (invece gli aspiranti Pasolini d’oggi, con l’agognato “Einaudi stile libero” in spalla, ancora si vergognano di confessare che lavorano in tv). Trattando i dettagli del contratto per “Ragazzi di vita”, scrive a Livio Garzanti: “Mentre un anno fa 100 mila lire avrebbero presentato per me il peso di un tesoro, oggi, avendo appena finito un film e cominciandone un altro subito, possono anche non importarmi”.

 

Il primo gennaio del 1957, “L’Unità” proponeva ai lettori una sventagliata di buoni propositi per l’anno nuovo affidati a firme autorevoli, alcune notissime, altre meno. C’era anche Pasolini: “L’augurio che faccio a me stesso per il ’57 è quello di lavorare. Vorrei finire la stesura del romanzo che è il seguito di ‘Ragazzi di vita’, vorrei finire entro primavera un libro di versi, che si intitola ‘Le ceneri di Gramsci’. Vorrei anche continuare il lavoro critico, specialmente per ‘Officina’. Ma naturalmente dovrò anche lavorare per vivere: il mio secondo mestiere, per ora, è quello di sceneggiatore. Mi auguro quindi che la crisi del cinema italiano si risolva, o meglio che si risolvano tutte le crisi: se è poi possibile vivere al di fuori di uno stato di crisi. E io non lo credo, ma lo spero”. Un Pasolini frenetico, solare, ottimista. Quello che più ci piace. Perché anche se si cita spesso, tra le sue frasi celebri, “il successo è l’altra faccia della persecuzione”, è lecito pensare che tra i due preferisse di gran lunga il primo.

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