L'intervista
Margaret Atwood: "La paura dei russi è una follia. Cosa c'entra Dostoevskij con Putin?"
Il conflitto in Ucraina rievoca alla scrittrice canadese l'infanzia trascorsa sotto le bombe naziste: "Mi sento riproiettata a quell'ansia terribile che ho provato allora. La liberta? Significa dire alla gente quel che non vuole sentirsi dire"
In collegamento dalla sua casa di Toronto, a parlare con noi è una delle voci più importanti della narrativa e della poesia canadesi, più volte candidata al Premio Nobel per la Letteratura e vincitrice nel 2000 e nel 2019 del Booker Prize.
“Mi sono sentita ributtata all’indietro”, dice fissando lo schermo con i suoi occhi celesti. “Ho subito percepito che stavo assistendo a qualcosa che avevo già visto. Sono nata nel novembre del ‘39 e tutta la mia infanzia l’ho trascorsa durante la Seconda Guerra Mondiale. Ero piccola, questo è vero, ma ricordo bene le notizie dell’invasione lampo della Polonia da parte della Germania nazista. Oggi, in questa guerra della Russia contro l’Ucraina, mi sembra che siamo di fronte a un’operazione militare che ricorda molto quel triste episodio, con l’unica differenza non trascurabile che Putin – almeno per ora - non ha raso al suolo le città ‘nemiche’ così come fecero le truppe tedesche con le città polacche, però potrebbe farlo, chissà”.
“Mi sento piena d’ansia – aggiunge – e lo dico sul serio. Mi sento riproiettata a quella mia ansia terribile che ho provato allora e a quella delle tante persone che mi circondavano. Ricordo benissimo la preoccupazione dipinta sui loro volti: all’epoca non c’era la tv, ma la radio, i notiziari, i bollettini, ultime ore continue e tutto questo è andato avanti fino al ‘44. Mi torna in mente anche un’altra cosa di quei tempi bui – continua l’autrice di L’altra Grace, Il racconto dell’Ancella (da cui l’omonima serie tv), Il canto di Penelope, I testamenti, La donna da mangiare, Lesioni personali e l’ultimo, Questioni Scottanti. Riflessioni sui tempi che corrono, la sua terza raccolta di saggi e scritti d’occasione appena uscita anche in Italia, un libro pubblicato, come tutti gli altri, da Ponte alle Grazie nella traduzione di Guido Calza. “Durante quel periodo si sviluppò per fortuna un fortissimo movimento di resistenza e in Italia lo sapete bene, come lo sanno in Francia, in Polonia, nei Paesi Bassi e persino in Norvegia. Sono di là con gli anni per aver conosciuto diverse persone che hanno fatto parte di quel movimento”.
Un pronostico? Le chiediamo. “Come altre persone, anche io sostengo che qualora l’Ucraina venga effettivamente occupata militarmente, il movimento di resistenza ci sarà e sarà anche molto forte”. Mentre parliamo, arriva la notizia che il direttore d’orchestra Valerij Abisalovič Gergiev, già estromesso nei giorni scorsi dalla direzione di un’opera alla Scala - perché non ha voluto prendere le distanze, in alcun modo, dalla guerra messa in atto dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina – ha visto cancellare anche il suo concerto al Macerata Opera Festival. Prima ancora, c’è stato l’episodio di Paolo Nori, il cui corso su Dostoevskij è stato cancellato dall’Università Bicocca di Milano per “evitare ogni forma di polemica dato il momento di forte tensione attuale”.
“Bisogna essere realistici – precisa la Atwood. “Nel caso del direttore d’orchestra Gergiev, si poneva per lui una scelta chiara: se si pronunciava pubblicamente contro la guerra, non sarebbe mai potuto tornare in Russia. Stiamo parlando di un’autocrazia, questa è la realtà della Russia odierna. È vero oggi così come era vero negli anni Trenta. Quanti artisti, quanti scrittori e quanti attori in quegli anni si sono esposti e pronunciati contro il regime nazista, per poi essere costretti a lasciare la Germania senza mai farci ritorno? Troppi, tantissimi. La gente deve avere il tempo per riflettere. La realtà è che non siamo davanti a un regime democratico, né a un presidente che è paladino dei diritti umani. Il regime russo ammazza i giornalisti per strada o negli ascensori, avvelena gli oppositori politici. La realtà è questa e noi non dobbiamo dimenticarla. Detto ciò – aggiunge – questa ‘russofobia’ non ha alcun senso: il regime militare imposto da Putin non ci deve far dimenticare la grandezza degli scrittori di quel Paese, di Dostoevskij, di Tolstoj, di Cechov come della Achmatova. Sono grandissimi scrittori e poeti: che colpa hanno se c’è una guerra in corso? Gli artisti che non si piegano, se non sono fatti fuori, vengono censurati e repressi in mille modi. Questo fa il regime, ma non bisogna fare di tutta l’erba un fascio ed è sbagliato fare confusione tra la persona, l’artista e il regime del suo Paese. Vorrei poi dire a tutti coloro che fanno o solo pensano a queste ridicole censure, che Dostoevskij è morto. Che ‘notiziona’, eh? (ride, ndr). Forse loro non se ne sono resi conto, ma lasciamo perdere.
Lavorerebbe mai per il governo? Le chiediamo. Secca la sua risposta. “Assolutamente no. Se mi venisse chiesta una opinione, sarei disponibile a darla, ma essere pagata da un governo, questo no. Chi paga il musicista – si dice - poi decide la musica. Ecco, non è il mio caso: la mia musica non la faccio decidere a nessuno. Il mio datore di lavoro sono le mie lettrici e i miei lettori ed è nei loro confronti che ho una responsabilità. Da scrittrice cerco di scrivere al meglio che posso e cerco di dire al lettore la verità. La letteratura fa molto meglio la cosa che cercano di fare in tanti: c’è chi studia e c’è chi pensa, c’è chi fa previsioni, chi fa studi ponderosi. La letteratura fa altrettanto, ma meglio; non solo quella fantascientifica che è un esperimento di pensiero. Lo scrittore di fiction racconta storie ed è la cosa che fa meglio: gli esseri umani riescono a relazionarsi con più facilità a una storia che a un volume di tabelle statistiche e cifre. La storia dello Hobbit e del coniglio che parla, ad esempio, la seguiamo meglio di altre perché noi esseri umani pensiamo nella forma del racconto. Il nostro è un pensiero narrativo. Pensare in storie fa sì che il dato di fatto e l’immaginato procedano di pari passo fino a coincidere. La cosa che mi auguro sempre, è che gli storici dicano la verità”.
Nei suoi libri la Atwood lo fa sempre trattando spesso temi che le sono molto cari, come l’utopia e la distopia. “Il mondo del primo lo consideriamo migliore del nostro, il secondo peggiore”, ci dice. “In realtà, le cose non sono disgiunte. In ogni utopia c’è un po’ di distopia e viceversa. Immaginiamo sempre mondi che potrebbero migliorare il nostro almeno sulla carta e questa dialettica tra utopia e distopia si muove nella storia e nelle sue fasi. Il Diciannovesimo secolo è stato un secolo di utopie e del progresso inarrestabile; il Ventesimo è stato quello della forte distopia, di concezioni e di proposte letterarie distopiche. Abbiamo tanti esempi di mondi o di situazioni iniziate come utopie precipitate poi nella distopia. Capirete a cosa mi riferisco. L’importante è cercare di andare a fondo negli interrogativi posti. Noi esseri umani – aggiunge – siamo intrinsecamente esseri morali: ogni giorno esprimiamo giudizi se una cosa è giusta o sbagliata. Siamo esseri umani e morali, anche l’artista in quanto essere umano, lo è, ma si deve fermare a un certo punto. L’unica cosa che non gli puoi imporre, è dirgli cosa scrivere, perché a quel punto diventa censura, quello che io rifiuto”.
E a proposito di interrogativi e aspettative, per i suoi prossimi libri, ha mai immaginato un pianeta in cui non esisteremo più? “È importante immaginarlo – dice - ma se la specie umana scompare dal mondo, non si crea affatto un deserto, ma la possibilità di far entrare in scena altri tipi di vita, di rigenerare la natura. Nel mio caso, però, ho affetto per le persone e pensare che non ci siano più, mi dispiacerebbe molto. È possibile, comunque, che questo mondo resti senza esseri umani: non sappiamo se succederà oggi o domani, ma succederà. Pensiamo a cosa accade ai mari e agli oceani”.
Prima di salutarci, le chiediamo cosa pensa delle accuse spesso ricevute di essere una cattiva femminista. “Le donne – risponde - sono esseri umani, ma non sono certo angeli: ci sono tante tra loro che non sono neanche femministe, altre sono repubblicane e nemmeno democratiche (ride di nuovo, ndr)”. Di quell’accusa ricevuta, ne parla anche nel suo nuovo libro Questioni Scottanti e le stesse – ricorda - iniziarono nel 2001 con gli attacchi terroristici alle Twin Towers e al Pentagono. “Cambiò tutto”, scrive. “Gli antichi presupposti furono messi in discussione, le antiche certezze volarono fuori dalla finestra e le antiche ovvietà smisero di essere vere, la paura e il sospetto erano all’ordine del giorno”. “Quello che ho imparato e che non bisogna mai smettere di imparare – aggiunge - è verificare i fatti che dicono di noi, il resto è vento. Mi interessano le cose vere e reali. Se poi volete dire qualcosa di impopolare, dovete prepararvi degli argomenti di sostegno molto validi, perché vi salteranno addosso. Oppure dire la verità, come invitava a fare sempre Orwell, ed essere liberi, perché libertà significa il diritto di dire alla gente quello che non vuol sentirsi dire”.