scrittura e biografia
Le maschere di Italo Svevo nelle sue lettere e l'eterno dilemma dell'io dell'autore
Proust deprecava le ingerenze nelle faccende personali degli scrittori: esiste un soggetto più profondo che non si manifesta nei salotti e negli impegni mondani. A dargli ragione, nemmeno alle missive alla moglie troveremmo il vero volto di Schmitz/Svevo. Una "vita letteraturizzata"
La scuola storica era un indirizzo critico della seconda metà dell’Ottocento che considerava la letteratura sotto il profilo documentale: la ricerca consisteva nel riordinare lo sfondo biografico dell’autore e il contesto dell’opera (utilissimi erano dunque epistolari, testimonianze, carte di ogni genere), prima di scioglierne le trame spirituali. In entrambi i sensi – scrupolo aneddotico e sguardo ai valori – correva invece lo sforzo interpretativo di Charles Sainte-Beuve, di poco precedente e in seguito colpito con rigorosa asprezza dal giovane Marcel Proust in un celebre libello postumo. Proust deprecava le ingerenze nelle faccende personali degli scrittori: esiste un io più “profondo” – come insegna Bergson –, una sorta di io trascendentale che non si manifesta nei salotti e negli impegni mondani, che resta inafferrabile e non è sovrapponibile in alcun modo al soggetto empirico “di superficie”.
“Chi era realmente Svevo (o Schmitz)? Qual è il nesso tra scrittura e biografia?”, si domanda allora Federico Bertoni nella densa introduzione alle Lettere di Italo Svevo (a cura di Simone Ticciati, il Saggiatore, 1232 pp., 65 euro) che coprono un quarantennio – dal 1885 al 1928, l’ultima è del 1° settembre, a dodici giorni dalla morte – e ci regalano quattro biglietti sinora inediti destinati a James Joyce. Se dovessimo dar ragione all’autore della Recherche, nemmeno nelle missive a Livia Veneziani, la cugina sposata da Aron Hector (nome di battesimo) nel 1897 con rito cattolico, troveremmo il volto oltre le maschere. Con il triestino Schmitz impiegato nell’azienda del suocero e spesso impegnato in viaggi all’estero, scandagliare l’“intimo del proprio essere” non è compito facile. Secondo Bertoni, persino negli scambi epistolari – nel fondo sapientemente maneggiato da Ticciati, figurano tra gli altri Larbaud, Debenedetti, Crémieux –, sembra evidente quella “vita letteraturizzata” che contrassegna l’Emilio Brentani di Senilità. Anzi: la corrispondenza è l’unico esercizio di stile quotidiano che “Ettore quaresimale” può ammannire per parecchio tempo senza sentirsi in colpa. Non esattamente come l’inetto, ma come lo schlemihl della cultura ebraica, lo scalognato par excellence, Svevo è un “uomo del possibile” che non coincide mai con sé stesso. Del resto, l’“ambigua costruzione identitaria” è svelata al “carissimo amico” Montale con l’antinomica definizione della Coscienza di Zeno quale “autobiografia e non la mia” (17 febbraio 1926).
Per venire ai contenuti del carteggio, sono a dir poco esilaranti le promesse alla “bonbon” Livia (“mia buona bionda”, si ricordino Angiolina Zarri e l’Anna Livia Plurabelle del Finnegans Wake) di fumare zenocosinianamente “l’ultima sigaretta”. Risultato: “Dunque ho cessato di fumare il 3 Novembre 1896 ore 10 3⁄4. Mi fa da ridere di dover scrivere tanto per non fumare. Ricordo due giuramenti fatti. Uno spensieratamente (sulla tua vita per un mese) e l’altro più solidamente dinanzi al podestà”; e l’1 dicembre: “Sto fumando l’ultima sigaretta in premio d’essere stato finora senza fumare”.
I toni rivolti alla moglie, lessicalmente ricalcati su forme presenti anche nei romanzi (“ad onta che”, abusata qui e in Senilità), sono affettuosissimi: “Addio, cara Livia, eccoti gli ultimi baci epistolari. (...) Se la natura limitata umana non lo impedisse io conterei di tenerti nelle mie braccia notti e giorni continui a bevere di nuovo gioventù e vita la mia bocca vecchia e sdentata sulla tua rosea” (26 giugno 1900). Dopo la fama, cioè a partire dal 1925-26, per Svevo comincia il tourbillon delle riedizioni e traduzioni: le lettere si tecnicizzano. La letteratura ha vinto sulle trappole della vita. Nonostante tutto, davvero “fuori della penna non c’è salvezza”.