Non vedo nudo. Contro il perseverare della censura social
Contro l’algoritmo che non riesce a distinguere l’arte dalla pornografia e soffoca così la rappresentazione del nostro tempo. Eccellenti pittori costretti alle pecette
Mi ha censurato perfino LinkedIn. Non proprio un social per bambini e però nell’avviso c’era scritto: “Ti informiamo che il post che hai pubblicato viola le nostre policy (motivo: contenuti per adulti). Il contenuto è stato rimosso”. Cosa caspita avevo postato sulla pudibonda bacheca specializzata in ricerche e offerte di lavoro? Non il mio curriculum (dove comunque esiste un romanzetto che Paolo Poli definì “purissima pornografia”) ma l’ultima tela di Enrico Robusti, “Proclamazione di Miss Vomito”, quadro fin dal titolo superespressionista, nient’affatto realista, e perciò orientato a deformazione, interpretazione, trasfigurazione, non a eccitazione. Escludendo che sia stato censurato per i fiori (rose, margherite, papaveri, violette, peonie…) fuoriuscenti dalle bocche delle miss, immagino che la colpa sia di quel capezzolino dritto in basso a destra, fra un petalo e l’altro. Che vista l’algoritmo! Dodici decimi! Non ci avevo fatto caso nemmeno io, pur interessato al genere. Secondo me quella di Robusti è una critica al narcisismo, una rappresentazione dell’orrore dello spettacolo, una riflessione sulla scia di Debord e Vargas Llosa, mentre secondo LinkedIn è un’oscenità da cancellare.
Non sono soltanto io a preoccuparmi. Per me è ormai quasi una fissazione, per altri è una recente inquietudine. Su Le Point, il settimanale francese, è uscito un articolo sul perseverare della censura social, sul fatto che l’algoritmo continui imperterrito a bloccare “qualsiasi forma di nudità, senza riuscire a distinguere cosa sia arte o pornografia”. No, stavolta non si parla della “Origine del mondo” di Courbet, un capolavoro che probabilmente sopravvive piuttosto bene anche senza Facebook, ma dei problemi relativi a una foto postata dallo Jeu de Paume, museo parigino dedicato a cinema, arte contemporanea e appunto fotografia.
Qui mi piacerebbe, magari citando Baudelaire, Arthur Danto, Maurizio Ferraris, ricordare che la fotografia non è del tutto arte, che è più tecnica che arte, che quella fra algoritmo e obiettivo è una guerra fra macchine, una tecnomachia, ma ovviamente non è questo il punto. “La libertà d’espressione totale, illimitata, per qualsiasi opinione, senza alcuna restrizione né riserva, è un bisogno assoluto per l’intelligenza” ha scritto Simone Weil. Per qualsiasi opinione e, aggiungo io, per qualsiasi linguaggio artistico a prescindere dal suo status. Se le parole della filosofa francese sono vere, ed è difficile dubitare che lo siano, la censura è da considerarsi un bisogno assoluto dell’imbecillità. Questo spiegherebbe il suo crescente successo, in ogni ambito (ho appena letto dell’Università Milano Bicocca che tifando per l’Ucraina ha provato a cancellare il corso sul russo Dostoevskij tenuto da Paolo Nori…). La firma di Le Point, Aurélie Jean, un’esperta proprio di algoritmi che Forbes ha indicato tra le quaranta donne francesi più influenti, addirittura, non è radicale come la sua connazionale, è preoccupata ma non abbastanza e mantiene un tono complessivamente blando. Non considera il Leviatano californiano come il nemico metafisico che è, sembra perfino dare qualche credito ai “moderatori professionali” ossia a quelle persone che, non si sa dove e non si sa con quali criteri, dovrebbero integrare lo spietato giudizio informatico con un senno vagamente umano. Come se costoro (nerd americani o delocalizzati?) fossero espertissimi di storia dell’arte, come se non stessimo parlando di conformisti aziendalisti per giunta molto permeabili alla delazione (alcuni miei post pittorici sono stati censurati dopo mesi dalla loro pubblicazione e siccome i computer sono velocissimi è lecito pensare che siano incappati in segnalazioni antropiche, in denunce di spie in carne e ossa). E, infine, come se moderatore non fosse sinonimo di censore. Io credo insieme a Joseph Conrad (cito una sua lettera del 1907) “che il Censore non dovrebbe esistere affatto. Tu dici: si cambi il poliziotto. Ma chi deve giudicare i suoi giudizi? Dove lo si scoverà. Chi lo licenzierà? A chi deve essere affidato il potere di nominarlo? No, quella funzione è impossibile. La pretesa di esercitarla è vergognosa come ogni tirannia mascherata”.
Conrad si riferiva alla censura teatrale del suo tempo, si accalorava per una censura nazionale e parzialissima. Oggi che la tirannia mascherata è sovranazionale e onnipervasiva, pressoché cosmica, non vedo molti scrittori scagliarsi contro il Trust dei Braghettoni, il Cartello del Pensiero e del Pennello Unico. Mi viene in mente Bret Easton Ellis: “I social media erano diventati una trappola, e quello a cui in realtà miravano era silenziare l’individuo”. E poi Edoardo Nesi, attraverso un suo personaggio: “Hanno creato un tribunale globale di mentecatti e ogni giorno si mettono davanti a un computer e decidono cosa è vero e cosa no, chi è puro e chi no”. E nessun altro.
La critica avanzata sulle pagine di Le Point è troppo sommessa, vi serpeggia l’idea che la censura vada riformata, non abolita: “Senza questi algoritmi noi saremmo invasi di foto anatomiche”. Non è vero. Io sui social vedo soltanto coloro che seguo o coloro che cerco, se nessuno dei miei contatti posta foto anatomiche io foto anatomiche non ne vedo. Se qualcuno putacaso le postasse, tali foto, e io ne risultassi terribilmente turbato, potrei subito smettere di seguirlo e le sue foto, anatomiche o non anatomiche, non le vedrei più. Più facile (e liberale) di così… Aurélie Jean, che sarà una statalista, partorisce invece una proposta difficoltosa: “Si può pensare di creare una libreria di produzioni artistiche conosciute – una banca dati aperta a tutti – per evitare di rivedere censurate le opere di Courbet e di Delacroix”. Qui avverto varie complicazioni, la prima delle quali nella locuzione “produzioni artistiche conosciute”: conosciute da chi? I quadri appesi al Museo d’Orsay e al Louvre sono conosciuti e riconosciuti da tutti, pertanto il pelo di Courbet e la tetta di Delacroix godrebbero subito del giusto usbergo. Ma al di sotto di tanta notorietà e ufficialità? La proposta di Le Point somiglia a una licenza di nudo da concedere ai pittori morti. Peggio: soltanto ai pittori morti famosi. E’ figlia di una concezione dell’arte schiacciata sul passato e sul museo, il luogo (lo ha scritto qui lo storico delle eresie Giorgio Caravale) dove le immagini vengono addomesticate, depotenziate. Mentre il problema principale riguarda gli artisti di oggi, l’arte viva e magari combattiva che ha bisogno di respirare e a cui viene tolto l’ossigeno. Soffocando l’autentica rappresentazione del nostro tempo, di questa epoca di cui rischia di rimanere soltanto l’arte di propaganda, l’arte ideologica, l’arte di Cecilia Alemani che alla Biennale di Venezia esige l’arte che produce “risultati in termini di integrazione”, vale a dire l’arte che esclude la realtà. Io, per una mostra di Censurati che vorrei organizzare, ho una lista lunga un chilometro di pittori italiani viventi perseguitati dall’algoritmo, artisti continuamente sotto tiro, costretti all’autocensura e alle pecette per promuovere il proprio lavoro su internet (che se non è l’unico luogo dove promuovere qualcosa poco ci manca). A cominciare dal bannato numero uno, Riccardo Mannelli, il toscanaccio polemico, il satiro che proviene direttamente dagli anni Settanta e quindi da una stagione di libertà espressiva oggi perfino inconcepibile (andatevi a vedere cosa pubblicavano lui e Vincino e Pino Zac sul Male), per proseguire, in ordine alfabetico, con Saturno Buttò, Pierluca Cetera, Francesco De Grandi, Roberto Ferri, Daniele Galliano, Giovanni Iudice, Federico Lombardo, Giovanni Manzoni Piazzalunga, Jara Marzulli, Michele Moro, Silvia Paci, il succitato Enrico Robusti, Giuliano Sale, Nicola Verlato, Daniele Vezzani… E qualcuno mi sarà sfuggito, e sto elencando solo pittori italiani. Perché se potessi mettere in piedi una mostra di gittata internazionale aggiungerei gli americani Joan Semmel, Terry Rodgers, Eric Fischl, John Currin, Lisa Yuskavage, Jacob Collins, Will Cotton, Sergio Lopez, gli inglesi Jenny Saville, Jonathan Yeo, Michael Kirkham, i francesi Marcos Carrasquer, Hubert de Lartigue, Apolonia Sokol, le sudafricane Marlene Dumas e Lisa Brice, il catalano Xevi Solà, gli spagnoli Bernardo Torrens e Dino Valls, il tedesco Peter Klint, la slovacca Katarina Janeckova, il russo Serge Marshennikov, l’israeliano Kobi Assaf, il cinese Liu Xiaodong, il taiwanese Hilo Chen, il giapponese Nahoto Kawahara, e potrei continuare se avessi abbastanza pareti e lettori abbastanza pazienti, o abbastanza maliziosi da cogliere la ghiotta occasione per conoscere quadri riprovevoli… In catalogo oltre al mio testo inserirei un intervento di Nicola Verlato, uno dei nostri artisti più internazionali e il filosoficamente più attrezzato, che interpellato mi risponde così: “Questo desiderio di cancellazione indiscriminato della figura nuda, assimilata immediatamente alla pornografia, nasconde in realtà la cancellazione dell’unica radice culturale che ha fatto del nudo l’epicentro della sua visione, ovvero la radice greco-romana. Tutto ciò avviene da parte di culture ben radicate, anche inconsapevolmente, nelle culture iconoclaste del monoteismo lasciato allo stato brado, non ibridato con il paganesimo antico”. Insomma l’algoritmo è protestante, non cattolico. E’ puritano, non vaticano. Come dimostra il fatto che il meraviglioso aforisma con cui concludo proviene da penna ipercattolica e tridentina, quella di Nicolás Gómez Dávila: “Un corpo nudo risolve tutti i problemi dell’universo”.