La Russia e la congiura dei boiardi
Per capire Putin e il suo rapporto con gli oligarchi basta guardare il film su Ivan il Terribile di Eisenstein
Il mento levato in alto, la lunga barba appuntita lanciata verso il cielo a sfidare il destino, così emerge dall’ombra e irrompe nella stanza del trono Ivan IV Vasil’evi,č magistralmente interpretato da Nikolaj Konstantinovic Cerkasov, già protagonista dell’Aleksandr Nevskij sotto la direzione di Sergej Mihajlovic Eisenstein, nato a Riga, in Lettonia, da famiglia ebraica (in barba ai panslavisti di ieri e di oggi). Un lungo primo piano costruito in ogni minimo dettaglio, come in tutti i film del maestro, che non solo scriveva il soggetto e la sceneggiatura, ma disegnava da solo scena dopo scena. “Ivan Grozny parte II”, conosciuto come “La congiura dei boiardi,” è la seconda puntata di una trilogia che non vedrà mai la fine, dedicata a colui il quale per la prima volta assunse il titolo di zar, guidò la Moscovia con mano brutale e a suo modo geniale, piegò la chiesa ortodossa, lottò tutta la vita contro la nobiltà feudale, volle creare una monarchia totale, assoluta come quella che stava costruendo Elisabetta in Inghilterra o Filippo II in Spagna, adottò l’aquila bicipite, decretò Mosca terza Roma, erede di Costantinopoli ormai in mano al sultano turco.
Grozniy è stato tradotto come terribile, ma alcuni linguisti sostengono che sarebbe più appropriato tempestoso, furioso o semmai minaccioso, aggettivi non negativi per un popolo che lo temeva e nello stesso tempo adorava in odio ai nobili. Il primo film, girato in piena Guerra mondiale nel 1944, fu lodato da Stalin come esempio di cinema storico e patriottico. Il secondo venne bloccato nel 1946 e proiettato solo nel 1958, dopo la morte del dittatore, che rivedeva se stesso in Ivan IV trionfante, ma voleva gettare un’ombra sulle purghe e sui massacri del palazzo.
Non ci sono congiure, per il momento, tanto meno di nuovi boiardi, oligarchi, burocrati, generali, apparatčcik che dir si voglia. Purtroppo. Ma non si vede chi oggi in Russia, tanto meno nei cerchi concentrici del potere dentro e fuori il Cremlino, possa fermare zar Putin. Non gli uomini che hanno in mano due delle tre chiavi nucleari: il capo di stato maggiore, il tartaro Valerij Gerasimov, o il ministro della Guerra, il mongolo Sergej Kužugetovič Šojgu, con la loro faccia tardo-sovietica e i cappelloni satellitari. Eppure… eppure quel film dopo tre quarti di secolo ha qualcosa di profetico. Dai suoi fotogrammi emerge lo spettro di Vlad il Terribile.
L’ingresso plateale, dopo un esilio fasullo, segna la rivincita di Ivan, sempre più determinato a consolidare con furia lucida e implacabile il proprio potere autocratico. “Eccomi qua, non mi aspettavate? Vi nomino governatori, prendetevi le terre che volete, a me che ne sono rimasto vedovo resta la quota vedovile, le terre di confine”, così affronta i boiardi. Il principe imberbe è ormai un pluribarbuto imperatore investito da un compito sovrumano: rendere grande e invincibile la Russia. Il riferimento storico è preciso come sempre in Ejzenštejn, che Charlie Chaplin ammirava anche in quanto autore esemplare di film storici, al di là dell’enfasi non priva di retorica. Il 3 dicembre 1564 Ivan IV si allontana con famiglia e servi dal palazzo di Mosca, per stabilirsi nel villaggio di Aleksandrov, portando con sé le insegne del comando e il tesoro di corte. Il 3 gennaio 1565 invia al metropolita Atanasio una lettera nella quale denuncia i boiardi per la criminosa disgregazione in cui si trova il paese manifestando l’intenzione di abdicare. Una mossa disperata e astuta insieme, infatti ordina ai fedeli della “guardia popolare” (i suoi pretoriani, i suoi giannizzeri, gli Strel’cy, quei giovani vestiti di nero che terrorizzano il paese) di leggere due suoi proclami nelle strade della capitale: in uno accusa i nobili di maltrattare il popolo e annuncia che avrebbe lasciato il potere, nel secondo smentisce la rinuncia alla corona e afferma che era solo una minaccia o meglio una prova. Non sapendo che pesci pigliare, una delegazione, composta dal metropolita, dai boiardi (che temevano di essere accusati di tradimento) e dai mercanti (delegazione appoggiata dal popolo fedele), si reca ad Aleksandrov, richiedendo il ritorno al potere dello zar.
Come non gettare un ponte con i nostri giorni? Anche Vladimir Putin è riapparso dopo un lungo periodo in cui si era nascosto per paura del Covid, annunciando rivincite e sfracelli. La Cia sta studiando lo stato mentale del nuovo zar e lo trova ancor più “imprevedibile, erratico, irrazionale”. Nel cercare spiegazioni s’indaga sui mesi durante i quali Putin, scoppiata la pandemia, s’è nascosto al mondo e anche alla Russia. Dicevano fosse rinchiuso in una sua dacia, in preda al terrore di restare contagiato. E’ apparso una volta nel marzo 2020 coperto da uno scafandro giallo con tanto di casco, maschera e visiera in plastica inattaccabile, visitava l’ospedale Kommunarka a Mosca, sembrava che stesse entrando nel nocciolo fuso di Chernobyl. Oggi tiene tutti a grande distanza dietro improbabili tavoloni oblunghi. Nessuno ha tramato durante la sua assenza, ma certo la pandemia ha colpito duramente la Russia e il potere si è mostrato incapace di fronteggiarla. La sfida all’occidente con il vaccino Sputnik è stata ampiamente perduta. Intanto, oltre confine, si era diffusa la convinzione di un indebolimento del regime e di insoddisfazioni, se non proprio divisioni interne.
Putin scatena la guerra solo per riaffermare la propria autorità assoluta in patria e fuori? Teme davvero che il Covid abbia favorito l’espansione della Ue e della Nato rinfocolando in Ucraina la volontà di rivincita dopo il conflitto del 2014, l’annessione della Crimea e la separazione di gran parte del Donbas? Non lo sappiamo ancora, ma certo colpisce l’immaginazione quella chiamata degli oligarchi al Cremlino, nella grande sala Ekaterininskij intitolata alla zarina Caterina II, la tedesca Sofia di Anharst-Herst che divenne più russa dei suoi stessi sudditi, detronizzò con un golpe e fece uccidere l’imbelle marito, lo zar Pietro III, rafforzò la monarchia assoluta e sterminò nel sangue la rivolta contadina guidata dal cosacco Emel’jan Pugacčëv. Il lunghissimo elenco di chi era presente (36 nella lista del Cremlino) nella sera di quel giovedì 24 febbraio, durante il quale è scattata l’invasione dell’Ucraina, rappresenta la radiografia del potere economico sul quale si regge quello politico e militare. Chissà cosa avrà detto davvero Putin? Avrà citato Fëdor Dostoevskij sulla “missione paneuropea e universale dell’uomo russo al quale il destino della grande razza ariana sta a cuore come il proprio paese”?
Le scarne notizie parlano di un breve discorso, solenne e determinato, con il quale ha comunicato le sue ossessioni. Eloquenti gli sguardi sperduti sopra le mascherine che coprivano naso e bocca, agghiacciante il loro silenzio. Tutto degno della cinepresa di un Ejzenštejn. Zar Putin comunicava le proprie volontà. Punto. Unico a parlare, il capo del club dei nuovi boiardi, Alexander Shokhin, si è detto preoccupato non per la pace né per l’Ucraina, ma per le criptovalute prive ancora delle regole che le autorità russe vorrebbero imporre per meglio controllarle. Molti si sono interrogati sugli assenti, come i fratelli Boris e Arkady Rotenberg, compagni di judo e hockey, signori delle banche e delle costruzioni, o Yurij Kovalchuk, compagno di dacia di Putin e patron della Rossiya, che sarebbe la banca privata dello zar. Non c’era Gennadij Timchenko, in gioventù collega al comune di San Pietroburgo, il più grande intermediario di prodotti petroliferi. Non si sono visti l’ex signore dell’alluminio Oleg Deripaska (dicono che guidi la tepida fronda), né l’ex patron del Chelsea Roman Abramovich, che i servizi segreti britannici volevano far partecipare ai negoziati tra Ucraina e Russia.
Unico a prendere pubblicamente caute distanze è stato Mikhail Fridman, tra i primi dieci ricconi del paese, proprietario dell’Alfa Group che controlla la prima banca privata, la compagnia telefonica Veon (già azionista di riferimento della italiana Wind) e la catena alimentare al dettaglio X5 Retail. Passa parte del suo tempo a Londra, tranne d’estate quando si divide tra la Toscana e il Festival rossiniano di Pesaro, del quale è sostenitore. Nato a Lviv (Leopoli), quindi ucraino, presidente del consiglio ebraico, cittadino russo e israeliano, non lo ha fatto ricco Putin, semmai gli ha consentito di restarlo. Voleva studiare Fisica, ma non venne accettato all’università di Mosca in quanto ebreo (era il 1980!) e ha ripiegato sull’Ingegneria metallurgica. Si butta presto nei piccoli affari: apre una discoteca chiamata Strawberry Fields, in omaggio ovviamente ai Beatles, e quando a metà degli anni Ottanta Mikhail Gorbaciov avvia le prime liberalizzazioni, comincia ad affittare case per stranieri, a importare computer usati, sigarette e profumi con l’aiuto dell’armeno Robert Yengibaryan. Nel 1988 nasce il marchio Alfa per importare prodotti chimici per la fotografia, cerca soci, trova partner e amici tra i quali spiccano German Kahn e Alexei Kurmichev, che diventano anche loro ricchi e potenti. La svolta arriva nel fatidico 1989: un po’ di trading petrolifero, importazione di fotocopiatrici, in pochi anni nasce una delle più dinamiche conglomerate russe, finché non arriva la vendita dell’industria di stato. Nel 1991 viene fondata Alfa Bank. Nel 1994 Fridman assume Petr Aven, ex ministro degli Affari economici internazionali, e imbocca la via per diventare oligarca. Soldi privati e relazioni politiche, è stato per trent’anni il matrimonio vincente, il pilastro del potere nella Russia post-sovietica, adesso può diventare il suo tallone d’Achille. Putin era ancora un tenente colonnello del Kgb, ma si stava facendo largo a Leningrado e poi nell’entourage di Boris Eltsin, prima di spianare la Cecenia.
Anche grazie alle sue relazioni internazionali, Fridman potrebbe giocare un ruolo in una Russia deputinizzata, anche se non fino al Cremlino, interdetto a un ebreo dichiarato. Ha espresso preoccupazione per la guerra in Ucraina, ed è probabile che manifesti un sentimento diffuso tra gli oligarchi. Tramano dietro le quinte come i boiardi contro Ivan il Terribile? E’ quel che teme Putin, che ha lanciato un chiaro avvertimento. Simul stabunt simul cadent. L’ultimo zar sulle orme del primo? Ivan IV morì nel 1584 a soli 51 anni e nessuno sa bene come. Una leggenda vuole che stesse giocando a scacchi con la sua guardia del corpo, secondo altri avvelenato; nelle sue ossa sono state trovate forti tracce di mercurio, ma forse lo usava contro la sifilide della quale soffriva. Gli zar cambiarono tumultuosamente per oltre un secolo fino all’arrivo di Pietro il Grande, i boiardi rimasero a gestire ricchezze e potere. La storia si ripete? Gli oligarchi non sono tutti uguali e sono nettamente divisi tra loro. I più deboli sono ovviamente i burattini di Putin, gli uomini del Kgb come Igor Sechin, che guida il gigante petrolifero Rosneft, oppure Aleksej Miller di Gazprom, ex funzionario politico. Ma anche quelli che mantengono il comando dei loro imperi economici non finiscono in Siberia o in prigione, come Michail Borisovič Chodorkovskij, solo grazie al patto che Putin stabilì con loro appena eletto presidente nel 2001: arricchitevi pure, ma comando io. Come Ivan Grozniy al suo rientro a Mosca.
Torniamo alle possenti inquadrature in bianco e nero costruite dettaglio dopo dettaglio. Ecco Sigismondo II re di Polonia e granduca di Lituania, è sul trono, il volto incorniciato da un gigantesco collare bianco, rigido, inamidato che gli impedisce di sedere diritto. Prende la lunga spada e nomina cavaliere il principe russo Andrej Kurbskij, che gli promette di sconfiggere Ivan, diventato suo nemico giurato. Sigismondo si lancia in una lunga tirata sul ruolo della Polonia, della consociata Lituania e della Lettonia, la terra baltica dei cavalieri teutonici, una lega cristiana che tenga a bada l’asiatica russa a est e l’infedele musulmano a sud. “Se un re forte s’installasse sul trono moscovita, per i regnanti d’Europa sarebbe la fine”, proclama davanti alla corte riccamente abbigliata di fantasiose vesti occidentali e giura: “Cacceremo i barbari moscoviti dall’Europa fin nelle più lontane steppe dell’Asia”. Ma all’improvviso arriva trafelato un messo e annuncia: “Lo zar Ivan è tornato”. Sigismondo s’allontana stizzito. Andrej se ne va disperato. Quel baluardo polacco che allungava i suoi possedimenti all’Ucraina fino al mar Nero, è l’ossessione dello zar che pure in gioventù si era aperto alla cultura dell’Occidente per poi ritrarsi scottato tra le cupole orientali di San Basilio il suo monumento al santo anacoreta, lo “Stolto in Cristo”; o dietro le mura inespugnabili del Cremlino circondato dalle immense steppe che l’orda d’oro aveva lasciato ai cavalieri tartari e ai mugik russi.
Dissolvenza, con una fitta cortina di fumo, di polvere, di tempesta a coprire il cielo e lo schermo. Da Mosca lo zar ripensa alla sua giovinezza priva di gioia, lui incoronato a soli 14 anni, lasciato solo senza più padre e senza madre uccisa in una congiura di palazzo, mentre i due più potenti cortigiani lo vogliono asservito chi ai cavalieri dell’ordine di Lettonia chi alla Lega anseatica tedesca che controlla i traffici del Baltico. E il piccolo principe, dopo averli ascoltati in silenzio, si lancia in un grido orgoglioso: “Le città della costa le abbiamo costruite noi. E quello che abbiamo perduto ce lo riprenderemo con la forza”. Chissà se Putin nella sua villa tra le betulle, mentre si proteggeva dall’avanzare del virus, avrà rivisto quel film o magari solo le scene di potente suggestione narrativa sul tragico destino delle genti che popolano la vasta frontiera tra Europa e Asia, senza pace da almeno 1.500 anni, da quando i romani abbandonarono le pianure della Dacia e il Danubio. Che fare di loro, ricacciarle indietro come voleva il re polacco, lasciarsi invadere da Vlad Grozniy in nome di una escatologia demenziale, o sforzarsi di comprenderle e abbracciarle, in un domani ormai lontano?