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Le marionette dei Colla in scena a Milano con “Lo schiaccianoci”

Marinella Guatterini

Appese a tre fili un teatro popolare di sconvolgente modernità. La magia del “piccolo” inanimato/animato è terreno fertile per coltivare l’immaginazione adulta

Solo le marionette sono capaci di resuscitare. Di sprofondare in fondo al mare, ferite a morte da un colpo di pistola, e riemergere dai flutti verde-blu più forti e aggraziate di prima. Si rassegnino i persuasi che questo genere teatrale, consacrato dal successo in età barocca, e ancor prima in Oriente, sia stato ucciso dalla danza dal vivo o peggio dal digitale. Nessun confronto per carità, nessun dito puntato, e poi contro chi? C’è un’abissale differenza tra il balletto Lo schiaccianoci di Pëtr I’lic Ciajkovskij, Lev Ivanov e Marius Petipa, al debutto il 18 dicembre 1892 al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo con danzatori in carne e ossa, e quello che è stato in scena sino a fine febbraio (per ritornarvi entro l’anno) nell’Atelier della celeberrima Compagnia Marionette Carlo Colla e Figli, in via Montegani, a Milano


Il luogo, sul declinare del XVIII secolo, era inesistente, oppure sconosciuto a Giovanbattista Colla, il capostipite della famiglia. Ricco commerciante, proprietario di una rivendita di legna, carbone e foraggi, oltre a possedere un palazzo a qualche passo dal Duomo, ne aveva adibito una sala, secondo l’uso aristocratico o alto-borghese del tempo, al teatro delle marionette. Tutto avrebbe pensato, nella sua comoda vita il benestante signorotto, tranne che un fatale rovescio di fortuna avrebbe trasformato quello svago privato in sopravvivenza, in formazione marionettistica vera e propria che tra l’altro dopo il Congresso di Vienna fece fuggire i Colla da Milano per aver avuto rapporti con i francesi. Nessuna notizia di quel costrittivo nomadismo sino al 1835, quando sul primo dei loro libri mastri furono annotati spettacoli in Piemonte. Una ricca figliolanza fece sì che dopo Giuseppe, fossero i Carlo – I, II, III – a capo o dentro la Compagnia, sino ad Eugenio Monti Colla, l’ultimo Colla rimasto, e tale solo per parte di madre, grande ricercatore, scomparso nel 2017, in grado di recuperare l’eredità della famiglia e quella di altri, precedenti, marionettisti. 


Con la loro arte sopraffina che chiamano “artigianato”,  gli eredi – tredici, capitanati dal regista e leader Franco Citterio (ma con un continuo via vai di nuove leve e apprendisti) – continuano a rispolverare una fetta importante sia di teatro popolare italiano dimenticato, sia di opere e balletti risalenti anche a tre secoli orsono, compiacendosi di mostrare ogni volta al pubblico non solo un mondo meraviglioso per proporzioni, raffinatezza, sofisticate trasformazioni “a vista”, ma anche e soprattutto, la sconvolgente modernità delle marionette

Dominatrici oggettive di una scena che si permette qualsiasi coup de théâtre, ingenuità, o efferato melodramma, sono ora alle prese, e per la prima volta, con il balletto natalizio per antonomasia, celebre per i suoi tre Valzer – quello dei “fiocchi di neve”, “dei fiori” e “finale e apoteosi”. Musica rapinosa, per la quale un dapprima riluttante Ciajkovskij alla fine si divertì, inserendo nella partitura persino un nuovo strumento, la celesta Mustel (via di mezzo tra un piccolo pianoforte e un Glockenspiel) e associandone il suono diafano alla Fata Confetto. Ma prima di raccontare come si presenta questa magnifica marionetta, servono alcune precisazioni.  


Seguendo i rimasti appunti di Eugenio Monti Colla, questo Schiaccianoci, per 80 teste di legno, sintetizza in 70 minuti senza intervallo, la prima fonte ispiratrice  del 1892, e cioè il torbido Nussknacker und Mausekönig  (Schiaccianoci e Re dei topi) dello scrittore romantico E.T.A. Hoffmann, così affascinato dal fantastico e dall’horror da anticipare Edgar Allan Poe. L’ammorbidisce grazie alla più edulcorata traduzione di Alexandre Dumas Padre, che servì alla coreografia originale, aggiungendo un certo afflato da settecentesco ballet d’action o pantomimico di Jean-Georges Noverre con gesti e azione come prevalenti veicoli narrativi. Così, una voce narrante di ragazzina addestrata a non cedere a enfasi alcuna, illustra, nei momenti salienti, la vicenda della piccola Clara (qui mai nominata), trepidante, alla vigilia di Natale, mentre osserva con il fratello Fritz, i ragazzini che per strada scivolano sulla neve. Scenetta incantevole!

E’ il prologo. Indi, nella bella casa borghese del padre, il borgomastro di Norimberga, la protagonista  riceve molti doni dai genitori , ma aspetta soprattutto il regalo del suo padrino, lo zio Drosselmeyer. Prima di andarsene assieme agli altri ospiti e sulla musica, qui diretta, come tutta la partitura, da André Previn – la più morbida tra le molteplici versioni orchestrali esistenti – costui affida alla sua  protetta uno schiaccianoci che lei scende a controllare a notte fonda. Nel regno delle ombre la piccola vede sei orribili toponi: scorrazzano nel salone senza più albero di Natale, e sono capeggiati da un vistoso re. Quand’ecco che tutto il teatrino s’incendia di rosso. Incubo infuocato! Ma lo schiaccianoci da piccolo che era, diventa alto, fiero, e con i suoi soldatini ha la meglio sui roditori. Il vincitore si presenta con il nome di Nathanael e rivela di essere oggetto di un incantesimo dal quale non si è ancora liberato. E’ un principe inquieto in cerca della sua amata principessa Pirlipat, ma non esita a mostrare alla nuova compagna, nel frattempo cresciuta in altezza pure lei, le quattro ballerine volteggianti del “Valzer dei fiocchi di neve”: davanti a un bosco fitto di pini cala persino un magico sipario-reticolo di nivee falde. Incomincia il viaggio? Non ancora. Dentro una scenografia invasa di rose ricompaiono i grigi toponi; questa volta, però, è la protagonista, con forza insospettata, a cacciarli per sempre. Finalmente lei e Nathanael salgono sopra una preziosa slitta dorata. Volano alti in un cielo azzurro; sorvolano la Spagna, dove danza con vigorosi cambrè (riversamenti della schiena all’indietro) una gitana, e quattro grandi tavolette di cioccolato indicano che siamo già nel Regno dei Dolciumi. 

 

I due passano sopra l’Arabia e qui una ballerina del ventre si scuote tutta: mentre allarga le braccia per mostrare il suo ingioiellato costume spuntano quattro enormi chicchi di caffè. Dall’alto si vede una cinesina: si muove a piccoli passi felpati nel paese che fu di Mao e sollecita l’entrata di quattro gigantesche tazze da tè con relativa teiera. Ecco la Russia: quattro cosacchi eseguono un trepak – la danza a ginocchia piegate e braccia conserte – con una precisione da dieci e lode, e si mostrano in cammino alti bastoncini di zucchero. Il divertissement, se ancora teniamo a qualche aggancio con il balletto, è finito. Ora si entra in un giardino ammaliante: le farfalle vi svolazzano. Per il “Valzer dei fiori” quattro marionette grandicelle dai copricapi floreali esitano di schiena e sul fondo, ma al primo cambio di battuta musicale alzano lunghissimi steli: idea geniale. Si entra nel regno della Fata Confetto: in abito rosa e pizzi bianchi, capelli biondi e veri – tutte le parrucche dei Colla li esigono –, mostra vezzose compagne o “Praline”, violette, gialle, arancioni e verdi e il suo azzurro principe Zuccherino, biondo-biondissimo come lei. Sul fondo si squarcia una torta farcita da mangiare con gli occhi. Si danza, ma sulla musica del celebre passo a due conclusivo Nathanael riparte da solo sulla slitta dorata, lasciando la sua ancor più cresciuta compagna a piroettare nel “Valzer Finale e Apoteosi”. 

 

Tornerà a casa? Di sicuro, e la vocetta narrate dice che lei e Nathanael si incontreranno di nuovo. L’epilogo, con una maestra anziana davanti a due bimbi sui banchi di scuola, suggerisce che grazie alla fantasia gli incubi possono diventare sogni e i sogni realtà. Sembra di rileggere alcune righe di un breve saggio del 1853 di Charles Baudelaire (“Morale del giocattolo”, ristampato da La Vita Felice nel 2019) in cui si sottolinea quanto sia importante per un bambino scoprire la meraviglia di oggetti quotidiani in un mondo in miniatura. “Molto più colorati, puliti e lucenti” fornirebbero la prima iniziazione infantile all’arte. “Per i bimbi”, aggiunge Piero Corbella, anche organizzatore della Compagnia, era “un secondo spettacolo scoprire dietro le quinte i nostri marchingegni, le macchinerie, gli arredi, le ricostruzioni scenografiche”, e usa un verbo al passato con una nota di rimpianto. La pandemia impedirà queste visite al Piccolo Teatro Studio o al Grassi di Via Rovello, dove sono stati per decenni ospiti fissi – e ora vi faranno ritorno in giugno, con Aida, mentre in maggio porteranno in Germania il loro Ariodante di Georg Friedrich Händel assieme a 27 musicisti e sei cantanti dal vivo. Opere serie, davvero per bambini? 

 

Proprio il debutto dello Schiaccianoci, gremito soprattutto di adulti, lascia supporre che la “perturbante” alterità delle marionette, nel senso freudiano del termine  – qualcosa di familiare e insieme di estraneo – si lasci apprezzare anche e forse più da un pubblico maturo. Possiamo scomodare filosofi e pensatori, da Walter Benjamin, a Rainer Maria Rilke, da Heinrich von Kleist con il suo Sul teatro di marionette, sino a Gilles Deleuze in una conferenza sull’Etica delle performance meccaniche, ma il coro è unanime: la magia del “piccolo” inanimato/animato è terreno fertile per coltivare l’immaginazione adulta. Calzanti allo scopo sono le agili dita capaci di muovere ogni arto delle marionette, condividendo la ricerca non mentale ma fisica, del loro centro di gravità. La marionetta cammina, consuma suole di scarpe, che vanno riparate come quelle umane, danza, si slancia in alto, si divincola a terra ma vibra solo se chi la muove danza “o suona” con lei. 
Secondo Franco Citterio, il marionettista ha in mano uno strumento musicale da rendere espressivo: “Deve ingannare il pubblico manovrando la sua creatura dall’interno perché il finto/non finto risultino un ‘veramente’, avvinti in un unico significato”. Con le dita di una mano impugna un bilancino a forma di croce con tre fili, per far sentire che la Puppe, come viene nominata nei vari saggi tedeschi, non è un pendolo, o un peso, bensì un personaggio. Con le dita dell’altra mano muove molti fili per creare sfumature espressive o posizioni speciali. A questi fili i Colla danno un nome; nello Schiaccianoci “il filo del cuore” consente al principe Zuccherino di proclamare il suo amore alla Fata Confetto. Inoltre, classificano le loro teste di legno in ballerini, con l’attaccatura delle gambe alle anche, attori, comparse, extraterrestri come il piccolissimo Grillo parlante, o il Mangiafuoco del loro fortunato Pinocchio, altissimo eppure leggero perché fatto di cartapesta come i 215 interpreti di uno dei loro più longevi successi, Excelsior ribattezzato Civiltà e Progresso, nato nel 1895 e rinato per decenni al Teatro Gerolamo di Milano che fu la loro casa dal 1911 al 1957. Ora, dal 3 al 6 marzo, proprio alcune scene del loro Excelsior saranno mostrate ancora al “Gerolamo”, in omaggio al regista Filippo Crivelli scomparso di recente. Nel 1967, in occasione della sua regia del rinnovato “gran ballo” del Progresso al Maggio Musicale Fiorentino, Crivelli organizzò pure una mostra con più di 100 marionette dei Colla. Doppio trionfo. 
 

Tutto chiaro? Ma, sì, forse… Però almeno un mistero di questo artistico “edificio” composto di 3.000 marionette, 8.000 costumi, 1.000 scenografie realizzate o restaurate negli ampi spazi dell’ex Ansaldo milanese, dove opera pure il Teatro alla Scala, senza contare gioielli, parrucche, accessori, copioni, testi antichi –  in tutto 40.000 pezzi – può essere svelato. I Colla hanno girato il mondo intero: dall’America alla Russia, dall’Africa all’Australia ma non sono mai planati né in Giappone, né in Indocina. Rivalità? Di sicuro. Nel paese del Sol Levante il Bunraku, nato nel XVI secolo, con antecedenti nomadi già nel X secolo, è tuttora corteggiatissimo. Gli spettacoli prevedono la recitazione di un testo creato ad hoc, o rimaneggiato da scritti storici e l’accompagnamento musicale dello shamisen, un liuto a tre corde. La tecnica attuale vuole che le alte marionette non abbiano più fili, bensì una struttura in legno che forma le spalle sulle quali si regge la testa: la parte più importante con congegni che muovono bocca, occhi e sopracciglia. Per la loro l’espressività e la ricchezza degli ampi costumi competono con gli attori del famoso Teatro Kabuki


Ma non sono le sole; basta spostarsi nell’isola di Sado per trovare le Buya Ningyo, simili a bambole e oggetto di scambi e di un fertile collezionismo internazionale. Nell’ Indonesia di Bali e Giava le marionette Wayang Golek, Klitik in legno piatto e Kulit fatte in pelle pure piatta, sono diventate, dal 2003, patrimonio dell’Unesco. Esilissime, hanno braccia di bambù o di corno guidate da professionisti che spesso le proiettano su grandi schermi per farne un teatro di ombre, lì nato per i divieti iconoclasti musulmani.    
Anche il Vietnam è un paese negato ai Colla: là vi sono marionette pesanti – oltre 15 chili! – la tradizione risale all’XI secolo. Danzano sempre sull’acqua; a vista un braccio le guida nelle loro migrazioni verso un mondo che non c’è. Ha ragione Franco Citterio quando suggerisce che queste creature acquatiche nascono dalle paludi in una natura lussureggiante e ne sublimano il contesto. Per quanti scambi vi possano essere tra Oriente e Occidente, il primo vanta allegorie,  e nel segno e nella forma persino iperrealistiche,  metafore e simbolismo. In Occidente, invece, e in Italia in particolare, le compagnie marionettistiche ancora attive dal Piemonte alla Campania e in origine itineranti, sono sempre vissute all’ombra delle grandi istituzioni teatrali col desiderio di portare al popolo i classici famosi, e nei piccoli borghi, nei villaggi sperduti, anche i fatti di cronaca: le guerre, il brigantaggio, gli eventi tragici o lieti che nessuna gazzetta, analfabetismo permettendo, avrebbe saputo restituire con la stessa incisiva vivezza.

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