il foglio del weekend
I guerrieri del sogno
Hemingway, Orwell e gli altri foreign fighter. Ci vuole una misteriosa inclinazione per inseguire un ideale nella patria altrui
“These mist covered mountains
Are a home now for me
But my home is the lowlands
And always will be”
Dire Straits, “Brothers in Arms”
"Non è colpa mia se sono uno straniero; preferirei esser nato qui”, dice l’intellettuale americano Robert Jordan al diffidente guerrillero Pablo che deve aiutarlo a far saltare un ponte nella guerra di Spagna. La battuta è nel primo capitolo del più epico romanzo di Ernest Hemingway, Per chi suona la campana, e forse la ripeté diverse volte anche l’autore durante il conflitto civile spagnolo, forse la pronunciarono con accento incerto, adattato ai rispettivi idiomi, i volontari internazionali che fra il 1936 e il ’39 confluirono nella penisola iberica per combattere da una parte o dall’altra. Non per soldi né per dovere. Né mercenari né coscritti. Piuttosto guerrieri per sogno: di una fede politica, di un ideale privato. Per un’intima spinta sana o insana su cui però puntarono la vita, la persero o la guadagnarono. Non erano soltanto uomini d’arme ma intellettuali, artisti, rampolli di piccine nobiltà che un certo romanticismo ottocentesco aveva proiettato in quel secolo e per buona metà del successivo, con spada e fucile, ai quattro angoli del Vecchio Continente. Non furono patrioti ma combattenti per le patrie d’altri, di cui talora a stento intendevano lingua, cibo e costumi.
Il corpo di Santorre di Santa Rosa lo riconobbero dagli occhiali perché era l’unico a portarli, ma lo gettarono in una fossa comune. Rimase ucciso nella sua prima vera azione di guerra, sull’isoletta di Sfacteria, dalle truppe ottomane contro cui aveva deciso di andarsene a lottare per la libertà dei greci. Come aveva fatto Lord Byron, il più romantico di tutti. Come lui stesso aveva vagheggiato nelle brumose serate londinesi discorrendo con Ugo Foscolo, che ospitò quel piemontese esule per l’Europa con la condanna capitale in contumacia. Sì, combattere per la Grecia come aveva immaginato già in un’altra tappa di esilio a Parigi conversando col filosofo Victor Cousin, che gli sarebbe diventato amico. Così Santorre, ministro della Guerra per un effimero periodo, sceso in armi nel 1821 contro la repressione austriaca promossa da Carlo Felice, figlio di militare ma con precoce propensione per i libri, arriva nel Peloponneso come chi di un volume sa che gli resta solo l’ultimo capitolo da leggere. Scomodo per i greci, cui non conviene di fronte ai governi europei l’arruolamento di un famoso “rivoluzionario”, il conte di Santa Rosa accetta di combattere col suo secondo nome sfrondato del titolo nobiliare (sarà il signor Annibale Derossi) e da soldato semplice laddove aveva sperato nel comando di un reparto. Quel suo libro si chiude l’8 maggio 1825, quando va a infoltire la schiera degli eroi che per morire altrove hanno pagato pure le spese di viaggio.
Più o meno gli stessi chilometri separano Torino da Sfacteria e da Kyiv, ma due secoli dividono il presente dal tempo di Byron e Santorre. Nei ranghi dei volontari per un’altra patria, quella ucraina, non sembrano più iscritti poeti o esuli politici, per i quali forse twittare o marciare in domestiche piazze è il modo di partecipare a una guerra.
Ora forse gli intellettuali restano nel sogno che compete e non si tuffano più di corpo negli incubi degli altri, come fece George Orwell prima di diventare celebre. Giunto in Spagna con l’intenzione di mandare corrispondenze giornalistiche sulla guerra civile, s’unisce ai rojos del Partido Obrero de Unificación Marxista. Sul fronte aragonese assalta alla baionetta trincee di franchisti finché alle cinque di un mattino si sporge dal rifugio per distrazione ed è bersaglio di un proiettile che gli trapassa il collo. Restato vivo per miracolo descriverà con ironia l’esperienza come “piuttosto interessante”, quando deposto il fucile riprenderà la penna per stendere Omaggio alla Catalogna. Nell’ospedale di Tarragona, appena può comunicare nuovamente con un fil di voce, chiede se potrà più parlare e il dottore gli risponde di no. Invece un paio di mesi dopo la voce torna “quasi di colpo, avendo l’altra corda vocale ‘compensato’ la perdita della compagna”. Orwell soppesa la sua fortuna quando i medici, passandosi incuriositi il paziente, ripetono: “Qué suerte!”. La pallottola aveva mancato di circa un millimetro l’arteria.
Ciascuno ebbe la sua, di suerte, tra quegli eroi annoverati dallo storico Paolo Macry come coloro che “decisero di scendere in campo, combattendo a mano armata, non esitando a sconvolgere la propria esistenza” in nome di universali aspirazioni “costasse quel che costasse, e fecero scelte temerarie, spesso in solitudine, rompendo la routine e i valori comuni, mettendo in gioco la vita”. Doppiamente romantici, però, furono quelli che non poterono essere celebrati da vivi con medaglie né da morti nel marmo perché s’erano messi dalla parte sbagliata. Quella cui la Storia gira la faccia. Quelli travolti dai rivolgimenti di fortuna o che decisero, nell’atto conclusivo di una tragedia, di doverne “espiare” gli effetti.
Fu così che Giuseppe Bottai, due volte ministro nel ventennio fascista, già presidente dell’Inps, figura culturale di riferimento per gli eterodossi del partito, dopo la caduta non rimase nascosto ma entrò nella Legione straniera. Per “riscatto”, disse alla moglie. Tenente degli arditi nella Prima guerra mondiale, colonnello nella Seconda, l’ex governatore di Roma e Addis Abeba torna alle armi come soldato semplice col falso nome di Andrea e il cognome che gli danno è un programma: Battaglia. Conoscitore della guerra nei mistici furori e nella sconcezza cruda, Bottai ha sempre detestato chi si regala emozioni belliche per pura adrenalina o collezione di onorificenze, dall’Etiopia alla Spagna. Nei Diari sprezza il “tanfo di misticismo ipocrita e di contaminazione risorgimentale”. Appartenendo alla schiera dei guerrieri introflessi, non sopporta i protervi come il gerarca Ettore Muti e alla notizia della sua uccisione coglie l’occasione di appuntarlo. Gli “ripugnava” ricordarlo aviatore in Africa a Macallè, col suo “modo di fare la guerra, com’una partita sportiva, con un coraggio che snaturava il sentimento umano fino a cancellarvi ogni traccia di commozione, di religiosa ‘pena’, d’attonito stupore dinanzi alla morte data o ricevuta”. Per Bottai il fronte era stato invece un grumo di “contraddizioni psicologiche”: “una volontà di guardare in fondo alla guerra e un orrore d’avervi guardato”. Dopo queste riflessioni mette a fine pagina, per abitudine, il libro o i libri della giornata. Quel 26 agosto 1943 aveva riletto I promessi sposi.
Vestita un anno dopo l’uniforme della Legione ad Algeri, a settembre 1944 è mitragliere sul fronte francese contro gli ex alleati tedeschi, partecipando a due campagne d’Alsazia e a quella tra il Reno e il Danubio che termina alla fine della guerra, quando col suo reparto è trasferito in Marocco e in Algeria. Nel febbraio ‘46 assume un altro falso nome perché i giornali sospettano che Giuseppe Bottai sia tra le fila della Legione. Sarà ribattezzato André Jacquier fino al completamento dei quattro anni di ferma e al congedo col grado di sergente nell’agosto ’48, ma i commilitoni lo hanno chiamato sempre “le vieux”, il vecchio, perché quando si arruola è un cinquantenne. La durezza della vita legionaria non gli spegne l’avidità intellettuale: “Questo leggere forsennato, da cui vorrei liberarmi come da una pena. Leggere, perché gli occhi non vedano che una pagina di libro; e la mente non pensi i propri pensieri” si sfoga mentre è ricoverato in ospedale a Orano. Poi scende a comprare le arance a “un giovane negro della Guinea” “che aveva sete e nessuno si occupava di lui”. “Nulla è più duro da sopportare”, annota una volta, “del complesso d’inferiorità da cui un ‘intellettuale’ si sente oppresso tra i ‘manovali’”.
Ci vuole certo misteriosa inclinazione per inseguire un ideale senza lucro nella patria altrui, foreign fighter per una Causa persa come dietro una donna sbagliata o una seconda Luna che solo tu vedi splendere in cielo. Sicché il cavaliere alsaziano Théodule Émile de Christen, come Bottai intellettuale tra i manovali, dové sentirsi “oppresso” tra “briganti” ferini, fanti sbandati e poveri cafoni quando scese a Gaeta per soccorrere Francesco di Borbone nella difesa delle perdute Due Sicilie. Facendo spola tra lo Stato Pontificio e il vecchio regno del Sud, De Christen sbaragliò con quattrocento uomini rimaneggiati il battaglione di tremilacinquecento piemontesi del generale de Sonnaz, che per snidarlo aveva messo a fuoco l’abbazia di Casamari. Soldato d’onore, al termine della battaglia de Christen liberò i prigionieri nemici e restituì al generale le sciabole dei suoi ufficiali uccisi. Costretto a rimpatriare dopo la capitolazione di Gaeta, non si rassegnò e tornò sotto falso nome a Napoli ormai annessa al Regno d’Italia, ma fu scoperto, arrestato e condannato finché grazie a un indulto riacquistò la libertà. Se avesse scelto l’avventura tra i garibaldini sarebbe stato celebrato come un Bixio. Combattendo per gli sconfitti, fu un delinquente. La Storia è un punto di vista.
Attrasse molti paladini della Causa persa l’epopea declinante delle Due Sicilie. Fu l’altra schiera della “meglio gioventù”, quella che scelse di percorrere la Storia contromano e attraversò l’Europa per mare e in diligenza quasi a cercarsi il giusto punto cardinale per morire. Scese dalla Sassonia il conte Edwin Kalckreuth, già ufficiale di cavalleria austriaco e dilettante di pittura, per animare la guerriglia legittimista assieme al famoso brigante Chiavone. Ai bersaglieri che lo catturarono nei pressi del confine pontificio, chiese prima della fucilazione di indirizzare una lettera all’ambasciatore sassone in Francia: “E’ da gran tempo”, gli scrisse il mattino del 29 maggio 1862, “che io vagheggio una morte simile a quella che oggi i piemontesi mi danno!”. Gli concessero di rimanere sbendato davanti al plotone e comandare lui stesso il fuoco.
E’ all’estremo momento che le vite di alcuni, diventando morti, ricevono un significato forse celato dalla nascita. Fu così per Fabrizio Quattrocchi, la guardia privata sequestrata e uccisa in Iraq nel 2004, che volle vedere in faccia i suoi assassini per dimostrare loro “come muore un italiano”. Uguale dignità non se la prese, quasi centocinquant’anni prima, il ventinovenne belga Alfredo de Trazégnies marchese di Namur, che non credette fino all’istante dello sparo alla sua fucilazione, persino quando l’ebbero bendato e girato di schiena come un comune grassatore. Prima di partire per presentarsi a re Francesco s’era cucito in petto l’emblema vandeano del cuore e della croce. Veniva nel perduto Regno perché si disse “amante dell’ordine” e perché, senza dirlo, doveva dimenticare un altro cuore e un’altra croce: l’amore irrealizzato per una baronessa. Tre giorni e basta durò la sua epopea: il tempo di arrivare alla frontiera pontificia, prendere contatti con i legittimisti e attaccare una guarnigione dei Savoia. Sbaragliati nel paesino di San Giovanni Incarico, i militari piemontesi tornarono con i rinforzi ed ebbero la meglio. Preso armi in pugno, il marchesino implorò una dilazione ma non gli fu elargita. Lo misero contro il muro nella piazza di San Giovanni il pomeriggio dell’11 novembre 1861. Una palla di fucile gli spaccò il cranio, riferiscono le cronache, mentre si volgeva per parlare ancora ai soldati. Il suo cadavere fu rivendicato dieci giorni dopo dai Cavalieri di Malta: nudo in una fossa comune, lo identificarono per una spaccatura degli incisivi. Il maggiore piemontese volle precisare sulla ricevuta che restituiva la salma di un “brigante”. Gli storici lo definirono “avventuriero”. Guai a chi perde.
(Una decina d’anni fa sono salito a San Giovanni Incarico, oggi provincia di Frosinone, da cui si gode un magnifico panorama. Poiché i tempi cambiano che solo le Sibille lo sanno, quel giorno che era 11 novembre il sindaco aveva organizzato la commemorazione del marchese e degli altri fucilati con lui. Una banda di carabinieri, che nel 1861 avrebbe messo al muro gli insorgenti borbonici, si schierò per eseguire l’Inno reale di Paisiello. Mentre suonavano pensai chissà se qualcosa di Alfredo de Trazégnies persiste ancora. Un istante dopo una farfalla bianca mi si posò sulla testa e a lungo ci rimase senza che avessi cuore di scacciarla. Ricordai che i greci usano la stessa parola, psyché, per indicare l’anima e la farfalla. La risposta al pensiero mi parve così esplicita, o almeno poetica, che dovevo far posare su queste righe Alfredo né ho cuore di scacciarlo. Lascio il compito a chi, letto l’articolo, volterà pagina).