Il Foglio del weekend
Da Pietro il Grande a Kruscev, l'impero degli zar
Credevano tutti di combattere contro l’occidente che consideravano corrotto. Poi è arrivato Putin che inebriato da quel retaggio glorioso degli imperi zarista e comunista si è isolato sempre più
In un saggio pubblicato poco prima della sua morte (Impero e rivoluzione, 2017), Vittorio Strada ha scritto che la data di nascita dell’impero russo non è univoca: all’anagrafe storica risulta ufficialmente registrata il 22 ottobre 1721, quando a San Pietroburgo Pietro I (1672-1725) venne solennemente proclamato imperatore, assumendo insieme i titoli di “Grande” e “Padre della patria”. In realtà, la sua incoronazione sanciva l’esistenza di un impero ante litteram, da lui profondamente trasformato e ampliato. Infatti si deve a un altro zar, Ivan il Terribile (1530-1584), il completamento dell’opera di riunificazione delle terre russe sotto l’egida di Mosca compiuta dai suoi predecessori, fino alla creazione di una potenza di tipo imperiale. In quell’impero ante litteram che era il regno moscovita, a partire dalla metà dell’Ottocento si affermò uno specifico nazionalismo russo parallelamente ad altri nazionalismi di popoli componenti l’impero, come il polacco e l’ucraino, che rivendicavano la propria identità e autonomia, dando vita a un insieme di questioni nazionali che mettevano in pericolo la compattezza del sistema imperiale, poi distrutto e ricreato dalla Rivoluzione d’Ottobre.
Secondo l’eminente studioso slavista, l’espressione “impero degli zar” è appropriata in quanto fu il potere zarista a costituirlo, unificando russi e non russi in una totale soggezione all’autocrazia. Ivan il Terribile si sentiva investito di un potere assoluto direttamente da Dio, il che gli faceva considerare i suoi sudditi servi o schiavi (“cholopy”) di cui egli era insindacabile e illuminato padrone. Questo impero non ancora ufficialmente tale era figlio di due altri grandi imperi poi scomparsi dalla scena storica: quello mongolo, sotto il cui dominio Mosca e gli altri principati russi erano stati nei secoli XIII-XV, e quello bizantino, del cui influsso spirituale è pervasa la cultura russa, ricevendo dal primo la formazione dello Stato e dal secondo il credo del cristianesimo.
La conversione al cristianesimo della Russia, che Stalin reputava positiva non certo per motivi religiosi, ma perché aveva favorito l’unificazione del paese e il suo ingresso nella civiltà europea, fu un’iniziativa presa dall’alto dal granduca di Kyiv Vladimir (988). Il battesimo di quelle popolazioni predeterminò lo sviluppo storico successivo della Russia, in quanto, se da una parte l’adozione del cristianesimo la demarcava dall’Asia e la avvicinava all’Europa, dall’altra, essendo quel cristianesimo greco “orientale”, la staccava dal cristianesimo europeo-occidentale “latino”. E, quando l’originaria unità cristiana si spezzò, le diversità tra le due confessioni si acuirono fino alla scissione (1054).
Dopo la caduta di Costantinopoli per mano turca (1453), il cristianesimo ortodosso diventò una sorta di religione nazionale, mantenendo però tutto il suo valore universale: la Russia si proponeva come la roccaforte e il santuario della fede vera, e Ivan il Terribile come il “defensor fidei” contro l’occidente latino falsamente cristiano. In questo senso, l’impero russo nella sua fase iniziale era un impero sacrale, un assolutismo teocratico nutrito di odio teologico contro un occidente corrotto. Di fatto l’inizio dell’impero risale al 1551, quando Ivan il Terribile conquistò il khanato du Kazan e nel 1556 quello di Astrachan, prima annessione a Mosca di un territorio non russo. A questa data se ne associa un’altra, il 1571, quando la Repubblica di Novgorod, rimasta con la sua assemblea popolare il simbolo di un’estinta Russia democratica, fu annessa manu militari a Mosca, la cui politica accentratrice aveva preso di mira anche l’immenso spazio siberiano.
Con Pietro il Grande, tuttavia, l’espansione geopolitica dell’impero subisce una trasformazione. Il sovrano capisce che la Russia non è il centro del mondo in quanto unico Stato ortodosso, e che centrale era invece l’Europa, civiltà impura ma dinamica e evoluta in senso tecnico e intellettuale. La cultura politica della Russia, insomma, doveva mutare, secolarizzandosi. La straordinaria espansione dell’impero sotto Pietro e la sua erede Caterina II (1729-1796) si accompagna così al passaggio da una realtà quasi esclusivamente russofona a una realtà cosmopolita. Realtà gigantesca e composita dal punto di vista etnico-nazionale, ma insieme unitaria grazie a una poltica che alla forza della repressione univa la lusinga dell’integrazione, cooptando le élite nazionali nelle alte sfere dell’amministrazione statale. Strategia che entrò in crisi quando il potere autocratico centrale cominciò a indebolirsi sotto la spinta dell’opposizione rivoluzionaria all’interno, e all’esterno sotto l’urto di tracolli militari come quello della guerra col Giappone per il controllo della Manciuria e della Corea (1904-1905).
Due avvenimenti segnano l’inizio del tramonto dell’impero sovietico. Il primo fu il XX congresso del Pcus nel 1956 e la denuncia che Nikita Kruscev fece del culto della personalità di Stalin. La morte del successore di Lenin nel 1953 liberò la classe dirigente sovietica dalla minaccia di una ripetizione del 1937, cioè di una epurazione violenta del vertice del potere politico e burocratico. La Guerra Fredda all’interno dell’Urss fu un’epoca di aspri rivolgimenti, sulla scia della precedente politica nazionalcomunista esaltata dalla vittoria contro il nazismo. Kruscev capì che sarebbe diventato leader del regime se avesse garantito gli interessi del ceto dirigente dell’impero sovietico e l’incolumità del vertice del partito. Con l’estromissione di Stalin dal pantheon del marxismo-leninismo, esso fu sottoposto a un lungo processo di desacralizzazione, al quale non poteva porre argine il potenziamento del culto alternativo di Lenin.
Con Kruscev, riformatore non per vocazione ma per necessità, e comunque ben lontano dall’idea di passare dal sistema totalitario alla società aperta, iniziava dunque quel processo critico che avrebbe travolto le strutture portanti, ideologiche ed economiche, del “socialismo realizzato”. Il collasso avviene con la perestrojka, anche qui malgrado le intenzioni di Michail Gorbaciov, che avrebbe voluto salvare sistema e ideologia riformando l’intero edificio del regime, ma di fatto ne minò le fondamenta facendo crollare l’impero. Il disastro di Chernobyl assestò il colpo di grazia.
L’altro avvenimento che segna il tramonto dell’impero sovietico è la guerra afghana, intrapresa con ambizioni imperiali e in nome di un intervento a favore delle forze “progressiste” locali, tanto che si parlava dell’Afghanistan come di una possibile sedicesima repubblica dell’Urss. Iniziata nel 1979, si chiuse ingloriosamente dieci anni dopo. Inoltre, quando nell’ultimo periodo della perestrojka venne concessa la glasnost, la libertà d’espressione (interdetta fin dall’ottobre 1917), cadde l’ultima barriera. Fallito il maldestro colpo di Stato nell’agosto 1991, la compagine mutinazionale sovietica si sciolse come neve al sole.
La volontà delle repubbliche baltiche e anzitutto dell’Ucraina di riacquistare la perduta indipendenza, la caduta del muro di Berlino: non c’è qui bisogno di ripercorrere la cronaca del disfacimento del sistema sovietico, che si svolse sullo sfondo dell’erosione della legittimità del potere politico totalitario e della caduta dei prezzi del petrolio, dai quali all’inizio degli anni Ottanta dipendeva lo stato del bilancio, del mercato dei beni di consumo e della bilancia dei pagamenti. Finiva così la Guerra Fredda e Francis Fukuyama parlò di “fine della storia”. Invece la storia, come sappiamo, non era finita, sia perché il nazionalcomunismo resisteva in un’altra grande potenza, la Cina (oltre che in zone minori), sia perché nella sua arena entrava un nuovo giocatore, il fondamentalismo islamico portatore di nuovi rischi globali.
Un protagonista di quegli anni, Egor Gajdar, primo ministro nel 1992 in sostituzione di Boris Eltsin, nella prefazione al suo libro La fine dell’impero avanza una analogia tra la Russia postsovietica e la Repubblica di Weimar. Un confronto illuminante, pur tenendo conto delle debite differenze tra la Russia dopo il crollo del 1991 e la Germania dopo la disfatta del 1918, tra l’avvento del nazismo e la nascita di un potere fortemente autoritario, seppure formalmente democratico, attualmente in una fase caratterizzata da tendenze totalitarie. Il sostegno della Chiesa ortodossa al successore di Eltsin stenta però a restaurare lo spirito dell’impero “sacrale” delle origini e quello dell’universalismo marxista. E, come già segnalava Strada nel suo saggio (di cui sono debitrici queste note), appare piuttosto grottesco il tentativo di colmare tale vuoto con una campagna di conservazione dei valori tradizionali della Santa Madre Russia contro il “nichilismo liberale” dell’occidente; ad esempio criminalizzando, come ha fatto il Patriarca Kirill mentre cadevano le bombe sui “fratelli” ucraini, le unioni omosessuali.
L’antioccidentalismo, e in particolare l’antiamericanismo, come la lotta contro la decadenza e la degenerazione dei costumi, tema caro agli slavofili e poi sfruttato anche dai sovietici, può essere “una bandiera capace di unificare solo menti retrive, mosse da particolari interessi politici” [Strada]. Né la denuncia della russofobia o dell’eterna congiura delle democrazie liberali contro la pacifica Russia può andare al di là della propaganda interna, in grado di fare presa solo su un pubblico corrivo. Infine il regime di Putin, che nella sua ipostasi sovietica voleva essere il faro del socialismo per un mondo immerso nelle tenebre del capitalismo imperialista, non può certo presentarsi come il faro dei diritti umani, cosa che neppure i più spericolati propagandisti del Cremlino oserebbero sostenere.
Del resto, in un’intervista al Financial Times di tre anni fa che destò molto scalpore, Putin aveva decretato senza mezzi termini la fine dell’idea liberale nel passaggio di secolo. Nulla di nuovo sotto il sole. Si tratta infatti di un punto su cui l’ex ufficiale del Kgb è tornato più volte nel corso della sua ascesa al potere. Non fortuitamente il saggio di Strada si chiude con una illuminante osservazione di carattere storico, ma aperta sul presente. Alla radice della ideologia russa c’è una formula triadica, elaborata per la prima volta nel 1832 dal ministro dell’Istruzione Sergej Uvarov: Trono (lo Stato autocratico), Altare (la Chiesa ortodossa), Popolo (lo Spirito nazionale). Dopo l’Ottobre ne seguì un’altra: Marxismo-leninismo, Partito comunista, Popolo sovietico.
Attualmente il posto per una nuova triade è vacante né può occuparlo il terzetto “autoritarismo, nazionalismo, militarismo”, con cui si è soliti designare il regime putiniano. Perché oggi l’impero è nudo. L’unico vestito “è il retaggio glorioso degli imperi zarista e comunista, da Ivan il Terribile e Pietro il Grande a Stalin, che portò la potenza russa al suo apogeo in senso territoriale e ideale, e la cui opera va continuata rimediando al disastro” provocato da ‘riformatori’ come Kruscev e Gorbaciov (e, peggio ancora, Eltsin)”. A foggiare il nuovo abito dell’imperatore sul modello dell’antico – conclude Strada – provvede attualmente un atelier di intellettuali che godono del monopolio dei mezzi d’informazione e dell’appoggio della Chiesa ortodossa, che tende a fare del cristianesimo orientale una religione nazionale di Stato. La veste è però fatta di un tessuto trasparente che “vela a stento la nudità, a differenza dei paludamenti dei grandi imperi del passato”.
Anche sotto tale profilo, l’invasione dell’Ucraina è stato un errore politico che ha creato una frattura insanabile tra due grandi paesi limitrofi, legati da secolari ancorché complessi ma rapporti.
La Russia si è autoisolata, con quali vantaggi sul piano della sicurezza territoriale è difficile dire rispetto alla perdita di affidabilità richiesta dalla pur sempre necessaria cooperazione con la comunità democratica internazionale. Probabilmente Putin è sedotto dall’idea di un ancronistico nuovo impero russo con ambizioni egemoniche europee, che, con un termine in cui geografia e ideologia si fondono, può essere chiamato “eurasiatico”. Di contro a questa prospettiva, inquietante per i suoi aspetti militari esterni e involutivi interni, data anche l’attuale ripresa del mito di Stalin come artefice della grande potenza russa, non si può escludere una complessa prospettiva opposta: una disgregazione dell’odierno assetto federativo della Russia, come effetto di una stagnante politica autoritaria. Del resto, la storia è piena di eterogenesi dei fini.