La gelida trilogia che racconta l'Ucraina dalla libertà alle bombe di oggi
Cosa significa vivere al limite di una pericolosa frontiera. Dai romanzi gelidi e roventi di Serhij Žadan
E’ chiaro che il nostro passato non ci lascerà in pace. Esigerà la nostra attenzione, metterà alla prova la nostra pazienza. Non può essere altrimenti. E’ rimasto per troppo tempo lì, il nostro passato: porte aperte e bollette non pagate, tanto dolore, tante immagini. La nostra storia sembra una rubrica telefonica dalla quale qualcuno, maniacalmente, ha cancellato nomi e numeri. Ma sarebbe bene imparare a navigare in questo libro, e non aver paura di ricevere telefonate dal passato. E sarebbe bene non cercare, nel futuro, quei numeri persi. In generale, sarebbe bene non confondere il passato con il futuro”.
Serhij Žadan ha il passato nel presente – tocca spesso a chi si trova in guerra – e una bibliografia nella biografia: l’infanzia sovietica (è nato nel 1974 nella regione del Luhans’k), la giovinezza tra i separatisti (che l’hanno pestato in quanto attivista dell’Euromaidan) e il presente a Charkiv, sotto le bombe. Scrive romanzi di frontiera gelidi e roventi, con battito fitto, telegrafico, e improvvise linee lunghe, liriche.
La sua trilogia, pubblicata da Voland, racconta l’Ucraina dal 1991 a oggi. La strada del Donbas, il primo capitolo, è il romanzo del passato andato e del presente vuoto, polverizzato dal transito senza nome di immensi tir, tra campi di granoturco che sono la vita, fermate di pullman vandalizzate e squallenti prefabbricati (“volevamo tutti diventare piloti, ma la maggior parte di noi diventò un perdente”). Poi c’è Mesopotamia, ambientato a Charkiv, quaranta chilometri dal destino, nove personaggi in cerca di tutto mentre la guerra si avvicina (“vivevamo nei quartieri arroccati sopra il fiume, crescevamo in appartamenti rimaneggiati e ridivisi, nei cortili avvertivamo sotto di noi la pietra sulla quale tutto si fonda”). Infine, Il convitto: il bellissimo racconto del viaggio di Paša, professore di ucraino che vuol portare a casa il nipote dal convitto in cui è ospitato, e che si trova nel bel mezzo della guerra. Raggiungerlo sarà un’odissea e tornare anche, tra ferrovie interrotte, posti di blocco, esplosioni, cani morti in pozzanghere di fango e sangue, e una paura ossessiva, nauseante, di poter essere nel mirino di qualcuno.
“Come ho fatto”, si chiede Paša, “a non accorgermi che i miei ragazzi adesso combattono contro di me? Com’è successo? Combattono contro tutto ciò che è legato a me. Ma cos’è legato a me? Tutto”, si risponde. “La mia materia, la mia scuola, la bandiera che sventola là sopra. Ora combattono contro tutto questo”.