La forza di guardare la guerra senza distogliere lo sguardo
In fondo tutto sembra la tragica storia di una illusione ottica, ma contro l'arte dell’accecamento bisogna reagire in tutti i modi
"Se vuoi conoscere il mondo, chiudi gli occhi", suggeriva il Godard de La gaia scienza, in una interrogazione su cosa volesse dire prestare uno sguardo a un territorio invisibile, filmare politicamente, e non filmare la politica.
In uno dei suoi primi videomessaggi, il 3 marzo, Zelensky invitava invece ad aprirli gli occhi sulla tragedia in corso: “Sostieni la nostra libertà. Perché questa non è solo una battaglia contro l’esercito russo, è una battaglia della luce contro le tenebre”. Quella in corso è anche una guerra di resistenza all’accecamento, asimmetrica come tutte le guerre moderne, in cui un flusso velocissimo e abbagliante di immagini sovraesposte, insostenibili, oltre i limiti del sopportabile, sfida una cortina di buio e cancellazione di tracce. Una guerra che si interpreta anche con il coraggio di guardare ciò che sfugge allo sguardo: non uno scontro di civiltà, ma di cecità guidate.
Non sembra esserci un altrove, un fuoricampo in cui rifugiarsi, in cui valgano le regole della contrapposizione di ogni guerra, quella in cui si riconosce una reciproca dipendenza complementare: se il nemico non esiste perché “ceci n’est pas une guerre”, non c’è negoziato possibile. C’è uno scarto di non reciprocità tra le visioni che non è rimediabile. Bambini e anziani sanguinanti, adolescenti infagottati e smembrati nella neve, ospedali e valigie solitarie: è forte la tentazione di distogliere lo sguardo, “non voglio più vedere nulla”, così come cedere a letture ingenue delle immagini che sappiamo da troppi conflitti essere in qualche modo già riflessi della realtà, scelte di campo. Le poche immagini che superano la cortina e arrivano ai cittadini russi sono presentate in modo simmetrico e opposto, in cui i carnefici e le vittime sono invertiti, come carte da gioco reversibili.
Da un lato il buio e la cancellazione di chi non viene riconosciuto, anche degli stessi morti a cui non viene concessa la sepoltura (in Russia i funerali sono proibiti, ma quanto a lungo si potrà negare? E in nome di cosa saranno morti quei militari di leva, di incidenti fortuiti in esercitazioni?). Dall’altro la luce dei milioni di obiettivi digitali, gli occhi passivi delle webcam e dei cellulari embedded. In questa guerra medievale di immagini ipermoderne, chi assedia chi? Si tratta di una forma di resistenza che isola un colossale spazio bunkerizzato chiamato RuNet, la rete interna e sconnessa, una sorta di metamondo in cui i ruoli sono rovesciati, gli aggressori aggrediti, i macellai operatori umanitari. Si tratta di immagini necessarie – e senza inversione possibile – che cambiano la percezione delle cose. Alla sospensione e lo stupore segue il tempo dell’emozione necessaria, l’azione che reagisce alla violenza dell'informazione, o al peso dei simboli.
Denial of service, Canale 536 non disponibile. Nei primi giorni dell’invasione guardavo RussiaToday, i programmi di informazione e di finanza dai titoli così surreali oggi, Boom Bust o Going Underground, soprattutto i documentari sul Dombass trasmessi in continuità, martellanti come i bombardamenti in corso su tutti gli altri canali. Per RT né guerra, né ricostruzione di uno spazio vitale, solo una operazione speciale. Da giorni c’è solo uno schermo nero, vuoto denso: non si vede più cosa (non) vedono i russi, lo schermo nero è ora uno sguardo muto che non ci riguarda.
Ma prima ancora, quando non era l’ansia da doomscrolling che andava placata, c’era un’altra immagine muta, il falso movimento della guerra. Ho passato ore a guardare piazza Maidan, un angolo di schermo acceso su uno spazio vuoto. La Reuters aveva installato una webcam fin dalla vigilia dell’invasione, quando ancora era una minaccia poco realistica, solo attesa e vigilia, una scena che non poteva essere tale. La telecamera registrava dei fantasmi senza corpo, qualcosa di impensabile, e infilmabile. Il tempo abolito della cronologia, il dominio di un presente intensivo: quella piazza sembrava una nicchia ecologica di indifferenza verso il frastuono della minaccia incombente, un luogo abitabile in opposizione allo spazio catastrofico della violenza.
Non è necessariamente vero che “la vita è una tragedia se vista in primo piano, ma una commedia in campo lungo”, come sosteneva Chaplin.
L’invasione annunciata in effetti aveva una data e una ora, era programmata per l’una del 16 febbraio. Alle 12:49 del D Day il drone di un anonimo burlone fende la piazza con un grande cartello beffardo: “Garage for sale in Solomyanka”. La trasmissione viene interrotta, per riprendere dopo alcune ore. Una beffa, una trollata, ma la commedia degli equivoci sarebbe durata poco. Si trattava peraltro delle stesse telecamere di sicurezza e della stessa piazza densa e fasciata d’arancione che avevano visto falciare decine di ragazzi nel 2014 nella più clamorosa insurrezione in Europa orientale dopo quella ungherese del 1956: grandangoli oggi, telescopi dei cecchini un tempo.
Mentre scrivo la piazza dell’Indipendenza è vuota, puro suono sordo di un tunnel del tempo, come acufene; nessuno che la percorra, un’auto nera che sfreccia veloce, e silenzio, luce che muta lentamente, dai toni pastello dell’alba, si indurisce sugli edifici rosa e l’ardesia metallica della cupola al mattino, si ammorbidisce con i lampioni aranciati della sera, la cappa di grigio piombo della notte. È uno spazio terribilmente concreto, una immagine fissa che scorre senza prospettiva, senza mediazione di occhi umani e allo stesso tempo irreale: l’immagine vuota della guerra, un colossale fuoricampo. Potrei stare a guardare la webcam per ore, e mi commuove pensare che per molti ucraini lontani questa quiete possa essere un calmante per il dolore, un luogo in cui ritrovarsi in una presenza distante.
Su tutte le altre piattaforme invece immagini vertiginose e simultanee, il massacro in tempo reale sulla linea di terra, sature di stories, inviati professionali e spontaneisti, testimoni oculari.
Eppure non è sempre vero che in prima linea si veda meglio. I videomessaggi dei mille attori non protagonisti cominciano in quiete ed deflagrano in mille schegge, fotogrammi sgranati dalle bombe a frammentazione, immagini-tempo che contengono le vigilie, le esplosioni, le macerie, in una continuità senza montaggio: si tratta di qualcosa di inaudito, una costellazione di immagini inedita. Una costellazione fuori scala e fuori fuoco, schermi dentro schermi che proliferano a una velocità esponenziale. Una velocità insostenibile, anche per lo sguardo.
In un passo sulla stupidità Dietrich Bonhoeffer avvertiva che il “il male si presenta nella figura della luce”, e che “È un nemico del bene assai più pericoloso della malvagità (…) contro la stupidità siamo disarmati”.
Non si tratta di stupidità, semmai di stato stuporoso: stiamo vivendo una guerra tra specchi deformanti, sguardi che non si incontrano. Più semplicemente una stagione di disequilibrio del terrore, di un principio di deterrenza che ormai è solo una fine, perché la minimizzazione dei danni non è più una posta in gioco interessante per una delle parti: un dilemma del prigioniero senza dilemma. Situazione duchampiana, "Il n'y a pas de solution parce qu'il n'y a pas de problème".
L’indifferenza alle sorti umane in nome di una passata terra promessa fa saltare ogni teoria dei giochi classica, ogni logica cooperativa: sprofonda tutti i contendenti in una condizione di cecità.
Intravedere la guerra
La violenza della guerra è cieca, secondo il dizionario dei luoghi comuni. Questa guerra la vediamo ma “non la comprendiamo”, sfugge al senso comune, nei discorsi di questi giorni si sente spesso “non ci credo, non è possibile”. La ragione ha bisogno della ragione per funzionare, e uno sguardo ha bisogno di essere ricambiato, per consistere. Memorabile la solitudine di Sergei Lavrov al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite su un grande schermo in un’aula vuota. Riflessi di riflessi: due visioni del mondo in conflitto, un conflitto in due visioni del mondo.
Shock and awe. Doveva essere una guerra lampo, alla velocità della luce, la meraviglia, il terrore dovevano accecare, oscurare e paralizzare. Il primo gesto bellico è il getto di sabbia negli occhi, la verità è sempre la prima ad essere sabotata. Le guerre chirurgiche non esistono, neanche al tempo dei teleobiettivi, e la guerra assoluta è una finzione, una fantasia logica. La strategia russa appare fallimentare e lo stupore ha un clamoroso ribaltamento: la sorpresa di non essere accolti come liberatori, l’inaudita resistenza dei corpi e degli individui alle astrazioni dei sogni imperiali, la formidabile concretezza della differenza. Di shock si tratta, ma è quello che deriva dall’abolizione della differenza che diventa antinomia.
Ancora una asimmetria: uno spazio virtuale sognato in una dimensione in cui la Storia è reversibile in cui si verrà accolti a braccia aperte, si scontra con un tempo dematerializzato e dilatato che resiste e si oppone. Eppure. « Pour bien se faire comprendre des peuples, il faut d’abord parler à leurs yeux », pensava Napoleone sull’arte del comando. In effetti oggi chiunque guardando il cellulare e parlando al popolo senza apparenti mediazioni può incarnare un moderno Churchill.
Si dice Zelensky abbia vinto la battaglia comunicativa con Putin: ha sicuramente mobilitato le coscienze mobilitando lo sguardo dell’homo ecranis occidentale. Viviamo da tempo in un mondo in cui la visione non è più una possibilità, il buio non è una scelta: la nostra condizione non prevede più si possa non vedere. Non si può distogliere lo sguardo, ma non si può neanche “restare a guardare”: il distant witnessing dei media immersivi, l’empatia della telepresenza non bastano, non senza sentirsi terribilmente in colpa.
La luce genera le sue ombre e la tecnologia crea nuovi ambiti di ignoranza: la complessità senza evidenze immediate produce una informazione che disorienta. Da molto tempo ci occupiamo delle forme più o meno perverse della disinformazione intenzionale, ma è molto più complicato fare i conti con l’ignoranza oggettiva e inevitabile che la velocità della tecnologia produce. In questa stagione di “deregolamentazione del mercato cognitivo” (così Daniel Innerarity, in La democracia del conocimiento, sulle varie forme di negazionismo e credulità della “società dell’ignoranza”) quante volte abbiamo pronunciato la frase “non credo ai miei occhi”? Sembra quasi una forma di obiezione di coscienza.
Nella nuova stagione delle tenebre alla fine del futuro, la Nuova Era Oscura (copyright James Bridle) la fiducia nelle immagini ridiventa un bisogno reale, qualcosa di necessario. Recuperare la fiducia nel mondo che abbiamo davanti, sebbene incredibile. Credere nel reale come forma di resistenza: è di questo di cui abbiamo bisogno di aver fiducia.
Vale per tutti: in un sistema fuori controllo, in un contesto ipercinetico in cui l’elaborazione dei dati può andare fuori servizio la fiducia è fondamentale. Devi fidarti di qualcuno o qualcosa, dato che non puoi esperire personalmente una realtà sempre più complessa.
Non credete a quello che non vi dicono i media russi, credete a me, mamma e papà, credete a ciò che vi dico, non vedete che sono qui a parlarvi?
Il progetto 200.rf (RF come Federazione Russa e Cargo 200, codice militare che l’Armata russa usava per identificare i caduti in Afghanistan) è stato bloccato, ma il canale Telegram ancora funziona: centinaia messaggi di soldati catturati che si rivolgono ai genitori, immagini di corpi bruciati inviati ai parenti per l’identificazione. Forma di pressione psicologica inaudita anche questa, ai limiti del lecito per le organizzazioni di difesa dei diritti umani (e per la convenzione di Ginevra del 1949), forse pericolosa per gli stessi familiari impotenti in patria. Un uso intensivo di immagini di prigionieri e vittime probabilmente non ha precedenti, ma è simmetrica alla colossale negazione della guerra in corso, arma di verità che sembra scuotere anche le nostre coscienze.
In fondo tutto sembra la tragica storia di una illusione ottica. La paranoia in cui sembra installato lo zar retroattivo è basata sulla sfiducia da accerchiamento, nel suo racconto a una logica implacabile si associa una passione accecante. Sceglie quel tavolo colossale, una sala immensa e luminosissima, in cui il timore di contrarre il virus (altra minaccia invisibile) giustifica la distanza dalla realtà: sembra già la dimensione grandiosa e abissale del bunker, dell’assedio interno. Questa guerra segna il ritorno della storia (copyright Time Magazine) e dunque la rivincita della geografia (in una etimologia improbabile, la tirannia della distanza).
Per difendere il tempo perduto dell’Impero, Putin sogna di occupare Odessa, ma non si tratta più di un obiettivo geostrategico, più crudelmente si tratta di una guerra con il tempo (no enemy but time, come quel formidabile romanzo di Michael Bishop). L’obiettivo è riconquistare il passato.
Anche lo spazio è profondamente mutato: in campo c’è una visione pre-Novecentesca e già post-atomica (i sogni zaristi come revenants, spettri da una epoca in cui i secoli erano lunghi), e un mondo nuovo multipolare, in cui le dottrine geopolitiche sono evaporate e la stessa idea di “paesi allineati” è priva di senso. Libertà e universalismo, sono alcune parole feticcio che recitiamo per darci coraggio. Ma lo zar sembra essere in una fase di negazione (denial come meccanismo di attacco, non difesa psichica), dell’esistenza spessa di questo mondo nuovo. E il brave del new world huxleyano con la resistenza ucraina ha una nuova accezione.
Guerra nuova e ibrida la definisce qualcuno, perché non si gioca più neanche in uno spazio-tempo fisico: la terza dimensione è la luce, associata a una velocità iperbolica. Se il Cremlino oscura i siti, si riesumano i telefoni da campo e il fronte si sposta nei meandri sotterranei (o satellitari) del darkweb, Anonymous non manda più in nero gli schermi, ma li inonda di immagini proibite. E se Radio Londra viene chiusa digitalmente, non si può impedire di navigare sulle onde medie dell’etere: sarebbe come svuotare il mare con un secchiello.
La guerra è da sempre l’arte dell’accecamento, come nei saggi sulla velocità esponenziale (“la vecchiaia del mondo”) in rapporto alle forme di vita comunitaria e della politica del filosofo urbanista Paul Virilio. Illuminanti le sue provocazioni fin dagli anni Sessanta sulle pretese dell’Illuminismo e la nostra sempre più debole capacità di adattamento alla sofisticazione tecnologica, di comprensione della realtà (velocità che ci fa “perdere mondo”), sull’”inquinamento dromosferico”.
Torna alla memoria per le riflessioni sulla “logistica della percezione”, sulla possibilità di filmare la guerra dopo la scomparsa della sua accezione classica clausewitziana, sostituita da conflitti locali permanenti che hanno come obiettivo seminare il panico (Pure War è del 1983… mentre il suo libro più inquietante e magnetico, Bunker Archéologie, è del 1975). Erano anni di disequilibrio terrorista e Virilio utilizzava l’espressione «guerra asimmetrica» in relazione alla proliferazione delle cellule vaganti che gettavano nel panico le città, quando la natura della guerra era già cambiata, ed era già impossibile ragionare in termini di dissuasione armata. Oggi le asimmetrie sono paradossalmente di ordine prepolitico, forme di delirio geostrategico, e la proliferazione atomica ha cambiato tutto. È l’idea della prospettiva occidentale a saltare per aria: da una parte una percezione della realtà, dall’altra un reale che protesta la propria verità.
Quando si guarda una immagine ognuno ne ha una esperienza differente, la visione è transitiva e passa attraverso un corpo: ogni atto di visione è determinato da qualcuno che guarda. Implica una relazione, seppure malintesa. Ma c’è qualcosa che non si può non vedere, di cui non si può non tener conto. Ci sono dispositivi tecnici (un tempo il cinema, ora moltitudine) che permettono di guardare senza usare gli occhi. E che non possono essere spenti, accecati. Immagini che provano a non sfuggire allo sguardo. Che impegnano. Nel nostro mondo la visione non è più una possibilità, viviamo già l’impossibilità di non vedere.
Il racconto putiniano sembra ottocentesco proprio perché sembra concepire la visione come reversibile rispetto alla automazione (occhi che guardano se stessi) della percezione del mondo. Immagini fisse si scontrano con i propri riflessi, le luci con le proprie ombre: l’oscuramento è il tentativo di una fuga impossibile nel passato.
L’immagine resistente
“Se il mondo è diventato un brutto cinema al quale non crediamo più, un vero cinema non potrebbe contribuire a ridarci delle ragioni per credere nel mondo e nei corpi venuti meno?” (Gilles Deleuze)
Il tempo sugli schermi digitali scorre veloce, quello delle immagini cinematografiche persiste, è un tempo che dura, una luce che torna. Il cinema sembra custodire delle immagini più reali di altre, capace di stare nella distanza, nel segreto e nella protezione dell’assenza. Un tempo di cui si prende cura, per rivelarne la realtà irriducibile, la resistenza alle varie politiche dell’accecamento. Ci sono alcune immagini necessarie che tornano alla memoria, e ora, grazie al meritorio lavoro del distributore Wanted Cinema, anche quelle di un film ucraino in alcune sale italiane in questi giorni.
Su una vicenda, la guerra nel Dombass, di cui da poco crediamo di sapere molto, e di cui finora avevamo visto quasi nulla. Passato in concorso a Venezia 2021, Reflection (Vidblysk) di Valentyn Vasjanovyč, già difficile da dimenticare per chi c’era, arriva sugli schermi sotto una nuova luce, con un racconto di intensa e dolente bellezza, teso e affilato come una lama che affonda nella carne viva, come in una scena quasi insostenibile al cuore del film. Il regista ucraino aveva già mostrato un enorme talento per l’allestimento di immagini-tempo in Atlantyda, film del 2019 da lui scritto, diretto, montato e fotografato, e girato a Mariupol' con un cast di volontari. A Venezia 76 aveva vinto il Premio Orizzonti con una storia ambientata in un futuro prossimo, in una terra di confine devastata e resa inabitabile dalla guerra tra russi e ucraini, con un sopravvissuto che, incapace di tornare a una nuova normalità, riparte verso i territori dell’Est dove aveva combattuto per aiutare a disseppellire e identificare i corpi gettati nelle fosse comuni. Il motivo della memoria che infesta la percezione della realtà, della rottura non medicabile della linea del tempo che abolisce il futuro e rende ogni presenza una assenza fantasmale, l’impossibilità di ritrovare un luogo nel mondo, è lo stesso di Reflection. Che è un viaggio all’inizio della notte, un film metallico, clinico, costruito con lunghe inquadrature fisse suturate una sull’altra, con falsi movimenti dei personaggi e immagini riquadrate in altre immagini sovrapposte, frame in frame.
Dopo essere stato a lungo esposto all'orrore dei corpi maciullati da medicare, amputare, riportare alla vita, Serhiy è incapace di “rimanere a guardare” a distanza dal fronte, a disagio in un interstizio di senso in cui le parole non hanno più relazione con le cose, si sente perduto, scomposto. Come un riflesso interno alle inquadrature di Vasjanovyč, una galleria di specchi che collassano uno nell’altro.
E si mette in viaggio, alla ricerca di una forma o una ricomposizione che porti sollievo, per capire come un certo insieme (il sé del prima) si fosse costruito, e dunque provare a ricostruirlo. Proprio come nel suo lavoro, a suturare le proprie ferite, pezzo per pezzo.
Il percorso del film è una sequenza di long takes in cui la camera è impassibile, pura durata, una messa in scena contemplativa che non cede mai alla tentazione dell’esercizio di stile. La freddezza clinica ed ellittica del racconto, la violenza fisica e psicologica, l'assenza di primi piani: tutto aiuta a mantenere una tensione senza oggetto, un vuoto che prende allo stomaco. A tratti si vorrebbe poter non guardare, sfuggire allo schermo, ci si sente in trappola in una cornice angosciosa. La messa in scena di una trasparenza lancinante, rigore, non rigor mortis: ogni immagine sembra necessaria, riflesso di un disegno limpido, glaciale, in qualche momento realmente doloroso. Ma è tale proprio perché l’autore non con cede mai alla tentazione di mostrare l’orrore, costruisce lentamente uno spazio di quiete, di dolore calmo, accoglie e situa lo spettatore sempre al centro del campo dell’inquadratura, costantemente in tensione e fuori equilibrio, per poi erompere in uno squarcio, un battito controtempo, in una rottura della fissità che è già pura angoscia. Il montaggio non procede per attrazione ma per associazione di idee, le inquadrature hanno delle risonanze interne, come versi in rima di baci rubati.
Il racconto ha una cadenza poetica senza poetume, i gesti diventano epici senza parvenza d’enfasi, lo sguardo di Vasjanovyč ha davvero la capacità di scolpire il tempo. Quella materia che è fuoco inestinguibile finché sei vivo e hai memoria: “La storia non è ancora il Tempo (…) Il Tempo è uno stato”, ricorda Tarkovskij nel rileggere I demoni, quando Kirillov dice a Stavrogin che nell’Apocalisse l’angelo giura che il tempo non esisterà più, e “non lo nasconderanno in nessun posto. Si spegnerà nella mente”.
Filmare poeticamente vuol dire credere al tempo (di nuovo Deleuze, Pourparler), e nel cinema (la dilatazione degli istanti, l’anatomia della scena, lentezza e fissità qui nient’affatto teatrali), come macchina dello sguardo, e non sguardo meccanico, in grado di suscitare eventi.
Scegliere di guardare a lungo, anche senza vedere molto, diventa una sorta di obiezione di coscienza, una linea di resistenza all’accelerazione e al movimento parossistico delle immagini digitali e social, vuol dire tornare a credere nel valore drammatico del tempo dell’immagine, che persiste, non scorre.
Nella scena iniziale due uomini parlano di cose apparentemente triviali, di quotidianità senza rilievo, di un compleanno di una ragazzina e del conflitto del 2014, ombre su una grande luminosissima vetrata-schermo che dà su una sala giochi, in corso una partita di paintball. Gli schizzi di vernice multicolore macchiano la tavolozza di vetro, i giocatori simulano con smorfie teatrali orribili ferimenti.
Che sono reali su un tavolo operatorio nella scena successiva, ancora dietro un vetro, in cui il protagonista cerca di salvare la vita a un soldato ucraino. Niente suoni né finta agonia, solo il verde malachite delle pareti e le striature di rosso del sangue gocciolante. I feriti in arrivo dal Donbass tardano troppo nel trasporto, e forse il senso di colpa di chi sta a guardare la morte al lavoro porta l’uomo ad arruolarsi. Stacco su un parabrezza, in viaggio verso l’oscurità più nera del fronte, sequenza claustrofobica dall’interno di un mezzo militare, fino a una imboscata, scoppio di luce e grida, la cattura da parte dei russi. La nuova cornice è la stanza degli interrogatori, con una finestra all’interno dell’inquadratura che è l’anticamera dell’inferno, una cantina squallida e umida senza luce esterna in cui il chirurgo viene spogliato, picchiato selvaggiamente, lavato con acqua gelida. E portato in una nuova stanza nuda, in cui dovrà porre fine alle sofferenze di soldati ucraini torturati, per poi bruciarne i corpi, lentamente.
La luce è sempre artificiale, e quando all’orizzonte appare una colomba bianca si tratta forse solo di un piccione, che si spiaccica su una grande vetrata trasparente. Grazie a una ennesima forma di simmetria, uno scambio di prigionieri, ci sarà un ritorno a casa, ma dalla fornace in cui bruciano i cadaveri non c’è ritorno possibile, nessun focolare domestico come ricovero dal freddo. Solo nel finale uno spazio aperto e un po’ di luce e vento, un altro fuoco forse di purificazione, di separazione da un corpo sordido e pesante come un fardello che non brucia e non scalda.
Un film notturno e ruvido, senza soluzione né consolazione possibile, una tragica lezione di tenebra per questi giorni orribili. Ma la capacità di ricomporre in una forma depurata ed trasparente i mille riflessi di quell’arte dell’accecamento che è la guerra in corso, diventa forse un possibile apprendistato, una lezione di rieducazione alla luce.
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