Non ci resta che imparare di nuovo l'importanza del sacrificio per l'ideale
Vie d'uscita alla guerra: servono gesti dal senso concreto. Proviamo a vivere una primavera un po’ più fredda, proviamo a rifiutare il gas che pure ci dà benessere, a non dipendere dalla Russia
Se tiriamo una riga, la modernità ha i suoi aspetti positivi. Non so se confrontandoli con quelli negativi avremmo un bilancio in attivo: sicuramente è doveroso saper individuare le cose buone, valorizzarle e tentare di rintuzzare il più possibile ciò che, al contrario, è “cattivo” (come mi insegnavano da piccolo).
Una cosa buona della modernità (occidentale) è l’intuizione che per risolvere le dispute ci sono forme diverse dalla violenza, dalla forza, dalla guerra, cioè da quell’insieme di strumenti coercitivi normalmente utilizzati nel passato in mancanza di alternative: da che mondo è mondo, quando non ci si trova d’accordo, vince chi è più forte. In realtà, ancora oggi è così: solo che, grazie a Dio, sono state trovate forme meno cruente per definire chi è il più forte. La forza di una persona o di una collettività non è proporzionata alla sua capacità concreta di far scorrere il sangue. Questa è una cosa buona. Come ci siamo arrivati? Essenzialmente con due stratagemmi socio-politici: il primo è stato quello di costituire degli organi di difesa talmente vasti (vedi la Nato) da dissuadere chiunque dal considerare l’ipotesi di fare la guerra con uno dei confederati: il giorno dopo sarebbe raso al suolo. Con questo primo stratagemma abbiamo sostituito la guerra con la “minaccia” di guerra (che sarebbe, lo sappiamo tutti, l’ultima). Non è un granché, ma è comunque un passo avanti.
Mentre questo primo stratagemma evita la guerra rimanendo dentro la sua logica, il secondo lo fa trasformandola metaforicamente: il “mercato” è un campo di battaglia, in cui la dinamica simbolica (vedi la definizione dei prezzi e dei valori) acquista una valenza addirittura superiore a quella della forza fisica o militare. Attraverso il mercato, le nazioni e gli insiemi di nazioni, per un ragionamento elementare di convenienza, hanno aumentato tra loro una progressiva interdipendenza: l’ideale di autarchia (di memoria fascista e oggi russa) è proprio il tentativo di sottrarsi alla coercizione di questa interdipendenza. Anche in questo caso, non è il massimo, ma è un’“arma” disponibile: ti faccio morire di fame, di stenti, di malattia (o semplicemente ti tolgo i benefit) ma non faccio scorrere il tuo sangue. Le sanzioni funzionano in questo modo, ma, basandosi appunto sull’interdipendenza creata dal mercato, hanno lo stesso grande effetto negativo della guerra: le perdite ci sono da entrambe le parti. Si tratta però, normalmente, di perdite di benessere.
Ed è qui forse che occorre riflettere con attenzione, su questo ultimo grande e rischioso bene della modernità, il benessere.
Il benessere è un bene intermedio, non il bene ultimo: ce lo sentiamo dire, ce lo diciamo ma lo capiamo solo ed esclusivamente quando ce lo portano via. Prima no. Una brutta bestia il benessere. Una cosa sacrosanta e da perseguire. Nella misura in cui non diventa (insensibilmente) la misura ultima. E’ penultima: cioè, “stare bene per cosa”? Ci siamo abituati (e questa è cosa buona) a non dover prendere decisioni brusche in merito al nostro sangue. Ma questo ci ha portato (e questa è cosa cattiva) a non considerare mai “per chi” e “per cosa” dare il nostro sangue. Il benessere ha questo grande feedback negativo: ci permette di spostare continuamente il momento di decisione, di rimandare la necessità di decidere per chi e per cosa vivere, morire o (peggio) “sacrificare”. Non siamo più capaci. O forse sarebbe meglio dire, non troviamo più le riserve per un sacrificio che sorpassi l’orizzonte del nostro benessere, per un ideale. Di sacrifici, in realtà, ne facciamo tanti, dei più assurdi e antieconomici. Ma tutto finisce nel vicolo cieco del nostro benessere percepito o immaginato. Tutto qui.
Così ci stupiamo, ci esaltiamo, ci commuoviamo di fronte allo spettacolo di gente capace di sacrificare la vita per la propria gente (e, non dimentichiamolo, anche per noi) e diciamo “Bravi ucraini! Forza! Siamo con voi! Vi diamo le armi!”. Ma stiamo fermi. Magari diamo qualche spicciolo ma rimaniamo bloccati nel nostro percepito o immaginato benessere.
La via d’uscita non può essere quella di aspettare di essere costretti a sacrificare: sarebbe assurdo. Il benessere è cosa buona ed è costato tanto. Né può essere quella di uscire dai patti militari o dal mercato, tornando alla natura primordiale (più violenta forse di quella attuale). La via d’uscita è quella di star dentro questo mondo in parte buono re-imparando da subito la capacità di sacrificio concreto per l’ideale.
Facciamone uno, che abbia un senso concreto e nello stesso tempo ideale: proviamo a vivere una primavera un po’ più fredda (basterebbero due o tre gradi in meno del solito, basterebbe spegnere il riscaldamento di notte), a non dipendere dalla Russia in questi mesi, a contribuire nel metterla sul lastrico piuttosto che bombardarla, a rifiutare il gas che pure ci dà benessere. E’ un modo concreto per combattere di persona (non solo per interposta persona) e con scomodità di fianco alla popolazione Ucraina che il gas non ce l’ha più. Presidente Draghi: proponga questo. Il popolo italiano si troverebbe a fare i conti con qualcosa di più interessante delle manovre geopolitiche e delle fake news dei padroni del mondo. E visto che lei ha una grande credibilità in questo mondo, provi a convincere i suoi colleghi a fare lo stesso.
Forse non vinceremo questa guerra. Certamente saremo meno deboli per il futuro. E il cattivo meno forte.