Parigi è ancora più luminosa se vista con gli occhi degli scrittori anglosassoni
Da Julian Barnes fino ad Agnès Poirier: quando la cultura britannica permette di cogliere le nervature rivelatrici della civilità francese
Esiste un drappello di scrittori anglosassoni ma culturalmente anfibi per l’intensità con cui si occupano della civiltà francese. Uno di questi è Julian Barnes, il cui ultimo libro che non sia un romanzo è The Man in the Red Coat (L’uomo con la vestaglia rossa, Einaudi 2020), titolo che riproduce quello del famoso dipinto di un pittore inglese (John Singer Sargent), che però era il ritratto di un affascinante gentiluomo parigino (Samuel Pozzi). Affascinante è anche il ritratto che Barnes fa della Parigi di fine Ottocento, popolata da Sarah Bernhardt e dai fratelli Goncourt, dai dandy fra cui primeggiava ineguagliabile il conte Robert de Montesquiou. Un ambiente dove Oscar Wilde, in una delle sue narcisistiche incursioni oltremanica, si permetteva di snobbare un invito a cena da Marcel Proust, credendo di essere lui il gigante e l’altro il nano.
Del drappello di scrittori fa parte Nancy Huston, canadese divenuta parigina, che scrive prevalentemente in francese, lingua da cui poi lei stessa si traduce in inglese: nel nostro discorso rientra Nord perdu (“Nord perduto”, 1999) in cui si descrive il destino di perdita dell’orientamento che tocca a chi dalla vita è stato condotto a mescolare appartenenze geografiche e linguistiche diverse. Lo sta traducendo in italiano Maria Sole Iommi, per editore ancora incerto. L’anfibia Huston vi racconta, in un magistrale capitoletto, che il suo bilinguismo è imperfetto perché in francese le è naturale scrivere e maneggiare oggetti intellettuali, ma per manifestarsi di getto e per menzionare ciò che è intimo e naturale ha bisogno dell’inglese.
Sembra cospirare un insieme di fattori per cui essere culturalmente anglosassoni dota di uno sguardo particolarmente incisivo su momenti della cultura francese: una capacità di coglierne le nervature rivelatrici. Qui vogliamo concentrarci su un libro interessantissimo di Agnès Poirier, scrittrice francese divenuta londinese. Il libro è uscito in inglese, con il titolo Left Bank. Arts, Passion and the Rebirth of Paris 1940-1950 (Bloomsbury, 2018), e in italiano è stato tradotto nel 2021 per i tipi di Einaudi (Rive Gauche. Arte, passione e rinascita a Parigi 1940-1950). Le vicende che narra sono interessanti sia in sé, sia per alcune riflessioni a cui conducono chi vive ai giorni nostri. Infatti riporta a un periodo storico (la fine della Seconda Guerra Mondiale all’immediato Dopoguerra) in cui gli intellettuali godevano di una tale attenzione da parte della società civile, che potevano concretamente influenzarne gli eventi. Leggendolo da italiani si è continuamente indotti a paragonare la Francia di quel periodo con l’Italia e l’Europa di oggi.
Nella Parigi degli anni Quaranta Albert Camus, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Boris Vian e diversi altri filosofi e scrittori dominavano la scena pubblica. Questa scena era così interessante, e così gratificante, che menti straordinariamente capaci di generare il nuovo e il notevole, e non disposte ad accontentarsi, come Pablo Picasso e Samuel Beckett, Alberto Giacometti e Saul Bellow, avevano scelto di vivere a Parigi. C’era addirittura un turismo, sia francese sia internazionale, di persone che percorrevano la Rive Gauche alla ricerca dei cafés noti per essere i luoghi di lavoro e di riunione di questi pensatori (come il Café de Flore, o Les Deux Magots). La consapevolezza di essere ascoltati e al centro della generale attenzione induceva gli intellettuali a essere engagés (“impegnati”). Le migliori menti, proprio le migliori, facevano politica. Sartre fondò un partito (sfortunato), André Malraux fu reso da De Gaulle ministro dell’Informazione, e poi della cultura.
Allora come oggi impegnarsi in cause ideologiche e civili comportava il rischio di subire campagne denigratorie e minacce. Certo, teorizzare la falsità di buona parte del sistema di pensiero su cui si basava la vita dell’epoca provocava dei nemici. Rifiutare la religione, violare senza nascondersi la morale corrente, sovvertire i ruoli dei sessi, poneva in rotta con tutta l’ala conservatrice della società. E dichiararsi comunisti esponeva a critiche, anche feroci e sempre più giustificate man mano che l’Unione Sovietica precisava i lati peggiori della sua politica interna ed estera, sotto gli occhi del mondo. Fino al punto di dover ammettere di essersi sbagliati.
Ma l’attenzione della società era tale, che Sartre e Beauvoir vivevano in albergo (il più importante fu l’Hôtel La Louisiane), perché con libri strenuamente filosofici e in nulla piacioni guadagnavano quanto serviva a rinunciare a ogni bene di proprietà che potesse distogliere la loro attenzione dallo scopo principale, che era pensare.