La filosofa e la ballerina
Simone de Beauvoir, Cléo de Mérode e un duello che finì in tribunale fra due modi di vivere la femminilità
La famosa ballerina e attrice era la figlia naturale di una baronessa austriaca, dama di corte dell’imperatrice Elisabetta. La sua storia nella nuova biografia di Yannick Ripa, una femminista radicale figlia di un’amica di famiglia
Era bella Cléo de Mérode, elegantissima e maliarda anche a novant’anni. Intervistata per Vogue da Cecil Beaton, che andò a trovarla nel suo appartamento in rue de Téhéran, la vecchina si espose all’obiettivo dell’inglese con cognizione di causa. Era stata la star della Belle époque, l’icona della grazia femminile, la prima celebrity d’Europa oltreché la protagonista del gossip internazionale per aver posato, si diceva, senza veli davanti allo scultore Alexandre Falguière, per il presunto idillio col re del Belgio, Leopoldo II, soprannominato Cléopoldo dopo essersi follemente invaghito, a sessant’anni suonati, di quella quindicenne che danzava nell’Aida all’Opéra. “Ricordatevi, sono molto civetta”, gli disse con sorriso angelico, chiedendogli un ultimo favore: “Mi promettete di distruggere le foto venute male?”. Beaton, che non era proprio uno stinco di santo, dovette restarne talmente ammaliato da ritrarla come “una stella romantica”.
Quella che nel febbraio 1964 apparve su Vogue America sarebbe stata l’ultima foto di Cléo de Mérode, un ritratto metafisico. Le mani giunte e le dita affusolate incrociate sotto il mento, lo sguardo fisso, gli occhi scuri sgranati, senza nemmeno un accenno di palpebra cadente, il naso dritto, le labbra serrate in un piega enigmatica, Cléo indossa un soprabito chiaro, e in testa ha un copricapo all’uncinetto che nasconde quel che resta della capigliatura di un tempo, lasciando intravvedere il suo marchio di fabbrica, l’acconciatura alla Belle Ferronière di Leonardo da Vinci adottata a tredici anni, con la famosa banda piatta divisa sui due lati della fronte che incantava gli ammiratori e faceva impazzire i detrattori pronti a scommettere che quella singolare foggia dei capelli servisse a nascondere le orecchie mozzate dal morso del sovrano belga, o l’assenza dei lobi e qualche altra orrenda malformazione forse congenita.
Anche allora esisteva la malignità dei media, che all’epoca si limitavano alla stampa periodica e quotidiana, corroborata però dalle dicerie del Tout Paris, propalate da alto borghesi, aristocratici, damazze in cerca di riscatto e “grandes horizontales”, come si usava dire. Anche allora la cattiveria era direttamente proporzionale al successo e alla gloria mondana di un individuo, e tanto più sfrenata quanto più si accaniva su figure potenzialmente innocenti e vulnerabili come un’adolescente in fiore, una giovane creatura serafica, esposta alle luce della ribalta che squarciava il velo del pudore e quello del privato. Di tutto ciò la storia di Cléo de Mérode rappresenta l’epitome perfetta, come dimostra la biografia di Yannick Ripa (Cléo de Mérode, Icône de la Belle époque, Tallandier), una femminista radicale, figlia di un’amica di famiglia, che ha scavato a fondo negli archivi riesumando una messe di documenti inediti, e collazionando testi di varie provenienza, per ristabilire la verità della sua eroina.
Bisogna dire che dieci anni prima di farsi fotografare da Cecil Beaton, la stessa Cléo de Mérode si era messa in testa di rivelare la vera verità della sua vita, e aveva pubblicato la sua autobiografia, Le Ballet de ma vie, mantenendo per altro nello stretto anonimato le sue molte relazioni ridotte a semplici iniziali. In quel libro del 1955 aveva ricostruire i fatti salienti della sua esistenza, le tappe della sua carriera, le cause e le dinamiche che ne avevano fatto l’incarnazione della Belle époque. Era un’operazione fatta in stile Mon coeur mis à nu, anche a costo di edulcorare il racconto e persino di cambiare un po’ le carte in tavola per ridare dignità a una vita romanzesca, sin dall’inizio, traversata da lotte e passioni, disciplina e ambizione, e da non pochi smacchi e delusioni.
La famosa ballerina e attrice invidiata da signore e signorine era la figlia naturale di una baronessa austriaca, dama di corte dell’imperatrice Elisabetta la quale, incinta e senza marito, dovendo evitare l’ignominia, andrò a partorire a Parigi, e abbandonata dal padre della creatura, decise di fermarsi lì, crescendo da sola la bambina, megalomaniacalmente battezzata Cléopatre Diane, e destinata a diventare il faro dei suoi occhi e la ragione della sua rivalsa sociale.
Orfana e ormai ottantenne, la figlia aveva voluto rendere omaggio a quella madre speciale che aveva nutrito per lei un amore esclusivo e l’efficacia di un agente abilissimo nel rappresentarne gli interessi negoziando al millesimo i compensi. Cercò così di ricostruire la traiettoria sfolgorante che grazie a lei l’aveva propulsa nell’empireo dell’arte, della pittura e della musica, del teatro, oltreché del jet set del suo tempo. Ricordò l’ingresso alla scuola di danza dell’Opéra de Paris, avvenuto quasi per caso seguendo un’amichetta, figlia come lei di madre sola, con cui giocava al Luxembourg. Raccontò il miracolo della bellezza, che le aprì la corsia privilegiata della fama, a cominciare dalle pose ingenue e sensuali davanti all’obiettivo di Paul Nadar, il fotografo che l’aveva scovata fra i così detti “topolini”, gli allievi della scuola di danza dell’Opéra. Rievocò l’amicizia amorosa con Reynaldo Hahn, figlio di un ebreo di Amburgo che aveva fatto fortuna a Caracas, musicista in erba, pianista e compositore prodigio il quale le avrebbe dedicato una melodia e vari altri brani, prima di diventare l’amico e l’amante di Marcel Proust, escludendola dalla loro simbiosi ma lanciandola nei salotti alla moda. Raccontò la sua fama sulfurea da modella di grandi pittori come Boldini, Toulouse Lautrec, persino Klimt, e poi i viaggi, e le trasferte in America, e la mobilitazione durante la Grande Guerra per i soldati feriti, e poi di nuovo la ribalta del teatro, con le sue luci e le sue ombre, la solitudine e il declino.
Ma raccontare la sua vita aveva uno scopo preciso: serviva a dissipare le voci che l’avevano perseguitata quando era in auge e soprattutto l’ultima infamia di una scrittrice in ascesa, Simone de Beauvoir, compagna di Jean Paul Sartre e filosofa dell’esistenzialismo.
Nel 1950 era uscito un saggio mille pagine sulla condizione femminile, Le Deuxième sexe, che intendeva dimostrare la rivoluzionaria tesi secondo la quale donna si diventa e non si nasce. “Un libro abietto come quelli di Sade”, commentò lo scrittore cattolico e gollista François Mauriac, confessando a un collaboratore della rivista di Sartre, “Les Temps modernes”, di aver “appreso tutto sulla vagina della sua direttrice”. Simone de Beauvoir insisteva sull’ineguaglianza tra uomini e donne, sul fatto che le francesi avessero ottenuto il diritto di voto solo nel Dopoguerra, in cambio dei servizi resi durante la Resistenza; rendeva omaggio a Marguerite Durand non per aver fondato un grande giornale femminista prima della Grande Guerra, ma per aver aperto a Asnières il cimitero dei cani, dove era finito anche Toto, il bastardino di Cléo.
Colpita come lei dal fango della stampa, Cléo si sentì solidale con la filosofa femminista. Anche lei era stata una concubina, avendo vissuto per dieci anni col diplomatico spagnolo Luis de Périnat, “un hidalgo con l’anima di poeta” che doveva immortalarla nella statua di marmo sulla tomba dell’adorata madre, al cimitero di Montparnasse. Ma una sera, ascoltando alla radio il programma di Yvan Audouard su France culture, quando cominciarono a leggere un capitolo del “Secondo sesso” intitolato “Prostitute e eteree”, si dovette ricredere. “Tra la bassa prostituta alla grande etera ci sono vari gradini. La differenza essenziale sta nel fatto che la prima fa commercio della sua pura generalità, dimodoché la concorrenza la mantiene a un livello di vita miserabile, mentre la seconda si sforza di farsi riconoscere nella sua generalità: se ci riesce, può aspirare a alti destini. La bellezza, il fascino, il sex appeal sono necessari ma non sufficienti: è necessario che la donna venga distinta dall’opinione. Spesso il suo valore si rivelerà attraverso un desiderio di uomo e quando questo l’avrà proclamato di fronte al mondo, essa potrà dirsi ‘lanciarla’”, scriveva la papessa dell’esistenzialismo, senza andare troppo per il sottile nel disprezzo per l’amore mercenario.
Ma quando Cléo sentì citare il suo nome, le prese un colpo: “Nel secolo scorso, il palazzo, la carrozza, le perle testimoniavano dell’ascendente acquistato da una cocotte sul suo protettore e l’elevavano al rango di mondana. Il suo potere si affermava finché trovava uomini disposti a rovinarsi per lei”, pontificava Simone de Beauvoir, prima di concludere con una frase assassina: “I mutamenti sociali ed economici hanno abolito i tipi come Blanche d’Antigny e Cléo de Mérode. Non esiste più un demi monde in seno al quale possa affermarsi la loro reputazione. Una donna ambiziosa cercherà di conquistarsi la celebrità in altro modo. L’ultima incarnazione dell’etera è la star. Fiancheggiata da un marito – che Hollywood esige rigorosamente – o da un amico serio, essa è del tutto simile a Frine, a Imperia, a Casque d’Or. Si offre come la Donna dei sogni agli uomini, che in cambio le danno fortuna e gloria”.
Etera lei, Cléo de Mérode? Cocotte e mondana grazie agli uomini disposti a rovinarsi? Prostituta di alto bordo un’artista come lei che aveva costruito la sua carriera a costo di disciplina e sacrifici? Giammai nella vita. Bisognava reagire contro la filosofa dell’esistenzialismo, denunciarla per diffamazione, portarla in tribunale per difendere la sua reputazione e la virtù della madre che aveva dedicato tutta la sua vita alla carriera di sua figlia. E poi, perché tanto accanimento? Certo, ogni generazione mette al rogo gli idoli di quella precedente. Ma perché Sarah Bernhard restava un’intoccabile, visto che si sapeva benissimo che prima di calcare le scene e diventare una grande attrice aveva esercitato il suo fascino recitando clandestinamente nelle case chiuse, mentre tutti invece continuavano a prendersela solo con lei, Cléo, sospettandola di leggerezza e trascinandola nel fango? Trent’anni prima, il regista americano Robert Z. Leonard, aveva offeso la sua dignità con film, “The Peacok Alley”, che metteva in scena una ballerina, una certa “Cléo de Paris”, che era una specie di prostituta alcolizzata in balia del primo che passa. La vera Cléo aveva chiesto il sequestro del film e un risarcimento di un milione, ma alla fine s’era dovuta accontentare che cambiassero nome dalla versione francese. Quell’esperienza le bruciava ancora dentro ora che l’infamia veniva dal fronte intellettuale, con Simone de Beauvoir e il suo editore Gaston Gallimard in prima linea, difesi da un principe del foro come Maurice Garçon, eletto pure all’Académie française.
Consigliata dal suo avvocato di fiducia, Xavier Torau Bayle, un settantenne amico fedelissimo conosciuto in Costa Azzurra, Cléo si mette a raccogliere le prove a discarico, inizia a tirare fuori due casse di documenti, per ricostruire in dettagli i contratti professionali, le relazioni con artisti, sovrani, ministri, e autorità. Smentita la relazione col re del Belgio, smentita la promessa di doni se cedeva alle sue avance, come pure il nudo integrale per la scultura di Falguière, e la proprietà delle tele di tanti artisti famosi, a cominciare da Boldini, paragonato ai nani di Velazquez, il cui ritratto di Cléo finirà nella collezione di Maurice de Rothschild. Parte lesa, la danzatrice chiede la soppressione dal libro delle frasi incriminate, e un risarcimento di cinque milioni. Irritatissima, Simone de Beauvoir si confida col suo amante americano Nelson Algren: “Nel mio libro ho citato Cléo de Mérode, domenica scorsa, qualcuno ha letto questo capito alla radio, e ha insultato Cléo de Mérode. Apprendo dai giornali che questa signora ora mi porta in tribunale. Mentre io porto in tribunale la radio per aver fraudolentemente utilizzato il mio nome. Eccoti una bella foto della signora. In realtà, credevo fosse morta da tempo, il che avrebbe facilitato le cose”.
La macchina della giustizia si mette in moto. All’udienza d’inizio ottobre del 1950 non si presenta né la ballerina né la filosofa. Gli avvocati sventolano i contratti, i ritagli di stampa. Che la filosofa pensasse che la ballerina fosse morta gioca a suo sfavore, spinge a ritenere che si fosse contentata di riferire i vecchi pettegolezzi, all’origine della brutta fama di Cléo. Ma quei pettegolezzi, veri o falsi che fossero, hanno contribuito alla fama della ballerina, tant’è che lei stessa se ne era servita, lasciandoli correre, ribattere l’avvocato della parte avversa. Alla fine la sentenza sarà salomonica: da un lato si riconosce che la brutta fama della ballerina poggia solo su dicerie infondate, dall’altro che la filosofa non ha fatto un buon lavoro da storico, trascurando l’analisi critica di tutte le fonti. Resta un fatto però, e cioè che le stesse prove a discarico dimostrano come le leggende metropolitane su Cléo avessero giovato alla sua fama. Sicché invece dei cinque milioni chiesti per risarcire il danno, Cléo de Mérode avrà diritto soltanto a un franco simbolico, mentre Simone de Beauvoir sarà tenuta a pagare 75.000 franchi per pubblicare la sentenza, e il suo editore dovrà cancellare dal saggio le frase oltraggiose. Una vittoria di Pirro? Certo, ma esemplare, perché una vittoria della verità sull’ideologia della liberazione femminile.