Silenzi d'artista
Il conformismo degli intellettuali non risparmia il mondo dell’arte, ridotto ad arredare i salotti buoni. Nell’indifferenza del pubblico
“A tutta prima l’outsider è un problema sociale. Un reietto, una nullità”
Colin Wilson
Quanto più sarai colto ed arguto tanto più sarai adatto ad agire per Satana”, scriveva nel 1642 John Cotton, scrittore puritano, padre del Congregazionalismo e predicatore americano nella colonia inglese di Massachusetts Bay. Monito scultoreo, stilato con l’intento lampante di contrastare e paventare la temibile tendenza propria degli intellettuali, prevedibilmente pronti, quanto avvezzi, a diffondere subdole idee capaci di favorire il declino dell’ordine e della morale nella società e nelle nazioni.
Frank Furedi, sociologo alla University of Kent, scrive di come fino agli anni Settanta la classe intellettuale poteva essere considerata una forza moderna e progressista, mentre per la cultura della destra politica non si trattava altro che di una compagine parassitaria e distruttiva. Come si vede, in ogni caso, si attribuiva all’intellettuale un ruolo tutt’altro che inutile e marginale e gli si riconosceva comunque la capacità di un’azione influente e una posizione sociale difficilmente sostituibile.
Non si può dimenticare come ancora negli anni Sessanta e Settanta del Novecento i pensatori radicali dei campus furono sovente considerati responsabili del declino morale dell’America. Dalla comoda posizione di improduttivi parassiti e di buffoni velenosi erano ritenuti capaci d’influenzare le masse credulone e passivamente pronte a prestare loro fede. Già Julien Benda nel suo notissimo Il tradimento dei chierici aveva, con forza, accusato gli intellettuali di aver abbandonato il proprio ruolo di “guardiani della società” in nome dell’engagement, trasformando attitudine e impegno in spericolate e fantasiose ideologie in grado di dar corpo a incontrollate, violente e partigiane passioni politiche spesso avvelenate da sbandamenti estremisti. Facile e lecito credere che il ruolo dell’intellettuale viva in stretta connessione con l’impegno sociale e possa sovente sposare una posizione dichiaratamente politica, per lo più ansiosa di esprimersi in direzione di un pubblico, nel desiderio, spesso inconfessato, di saper trasformare il frutto dell’ingegno in una sorta di utile coscienza.
Non si può far a meno di ricorrere al pensiero di uno dei massimi storici del Ventesimo secolo, Eric Hobsbawm, quando scrive di come il Secolo breve, il Novecento, sia stato l’èra caratteristica dell’impegno politico degli intellettuali, in particolare dalla fine della Seconda guerra mondiale fino al crollo del comunismo. Sono gli anni in cui si mettono in atto mobilitazioni d’opposizione “contro la guerra nucleare, le ultime guerre imperialistiche della vecchia Europa e le prime del nuovo impero mondiale americano (Algeria, Suez, Cuba, Vietnam) contro lo stalinismo, l’invasione sovietica di Ungheria e Cecoslovacchia”.
Sono gli anni in cui il ruolo degli intellettuali si mostra vivo e partecipe nel firmare e promuovere manifesti d’opposizione politica come faranno Noam Chomsky, Sartre, Camus, Aron, Foucault, Derrida, Bourdieu e tanti altri. Oggi pare di assistere alla scomparsa degli intellettuali “contro” e come dice Hobsbawm: “I sostenitori delle buone cause preferiscono rivolgersi a celebri attori o a musicisti rock anziché agli uomini di studio”, e ancora: “I filosofi non possono più competere con Bono o Brian Eno” a meno di tentare, in ogni modo, di autopromuoversi come celebrità.
Non si può far altro che restare nel campo del generico o persino del vago quando si vuole tentare oggi di dare una definizione coerente di questa ormai quasi diafana figura. Ci prova con maestria Sabino Cassese quando nel suo recente studio, Intellettuali, ci propone di scegliere l’accezione da ritenere più convincente: “Dotto, chierico, saggio, opinionista, maître à penser, spectateur engagé, maestro, public intellectual, public moralist, idea worker, social critic, political theorist”. Cassese sulle orme di Edward Said indica elementi in grado di dirci cosa l’intellettuale non pare essere. Intanto non dovrebbe fare parte di coloro che “si traggono nell’ombra lasciando la scena” e aspirano “a intendere senza partecipare” (Benedetto Croce), egli non può neppure essere schiavo della propria specifica disciplina, della propria cultura specialistica, dovrebbe invece farsi trovare dotato – secondo Cassese – di “istinto esplorativo”, saper scendere a patti con il passato “per trarne una lezione per il presente” e infine aspirare a una funzione cosmopolita, uscire cioè dagli angusti ambiti nazionali. Infine, secondo la definizione di Robert Musil, l’intellettuale potrebbe (o dovrebbe?) essere “un dilettante dai molti talenti”.
Nel 1979 Régis Debray – ben lo ricorda Edward Said – nel suo Le pouvoir intellectuel en France racconta di come dal 1960 pensatori tra cui Sartre, De Beauvoir, Camus, Mauriac, Gide e Malraux hanno rappresentato una potente compagine che – sostituitasi all’Accademia – ha generato figure libere intellettualmente e pronte ad agire a tutto campo. Sono proprio gli anni in cui schiere d’intellettuali iniziano “a intrupparsi nei mass media in veste di giornalisti, organizzatori e ospiti dei talk-show, consulenti o manager e via dicendo” (Said). Adesso si vuole l’uditorio di massa, si teme l’ascolto, gli spettatori e l’applauso e si tengono in alta considerazione “i consumatori senza volto”.
E’ proprio a questo punto che conviene chiederci se esiste, o può esistere, qualche individuo con le parvenze di un intellettuale indipendente “dall’università che lo stipendia, dai partiti politici” e in campo artistico non asservito ai voleri del mercato e dei mercanti, dei curatori e dei musei, prigioniero di investitori o medium inerte per transazioni valutarie internazionali dal sapore acido che accompagna risapute operazioni di money laundering.
Pare oggi viva soltanto come una sorta di ricordo letterario l’immagine dell’intellettuale come figura solitaria, individuo critico verso la società e i suoi banali e comodi riti, l’uomo ribelle per cultura e per temperamento, nemico giurato degli obblighi imposti, un personaggio che possa aver da fare con lo Stephen Dedalus di James Joyce. L’intelligenza contemporanea ha il sapore invece di formali congregazioni di “docenti, giornalisti, esperti informatici, lobbisti, opinionisti e rubrichisti, consulenti legali pagati per esprimere un parere” (Said).
Ovviamente nessuno si spinge a pensare o dichiarare che il lavoro intellettuale nelle università, case editrici, nei giornali e in istituzioni varie non possa generare altro che conformismo e osservanza dei canoni. Quello che invece sembra garantire banalità risiede piuttosto nel modo di vivere la professione come mestiere a gestione impiegatizia, routine senza fantasia, quella del ben noto nine-to-five. Facilmente questo tipo d’intellettuale tende a specializzarsi e fare cioè della competenza nel proprio campo un atteggiamento esclusivo antitetico a qualsiasi forma di eclettismo e perdendo, sino alla scomparsa, l’indispensabile intelligenza critica.
E’ esattamente quello che succede anche alla figura dell’artista come intellettuale e a molti di coloro che trafficano a vario titolo con i pericolosi utensili della creatività. Cancellata l’attitudine critica, l’irrequietezza intellettuale, il gusto reale del non allineamento, l’artista si perde imbambolato in un vago universo di presunta onnipotenza espressiva e non si accorge d’essere immerso – purché tenuto in qualche considerazione – nel labirinto della “trafila delle certificazioni”, l’indescrivibile territorio fatto di osservanze, obblighi e silenzi critici. Schiavo della ripetizione differente a tutto favore di un presunto immodificabile stile utile soprattutto alla riconoscibilità commerciale, il magico regno in cui le opere d’arte hanno valore come oggetti di marca, elementi di un brand esclusivo, pedine da investimento e collezionismo.
L’artista si muove nel controverso “mondo dell’arte”, quello che il filosofo americano Arthur Danto nel Journal of Philosophy del 1964 aveva battezzato come Artworld, un luogo cioè popolato di attori coinvolti nella promozione critica e nella vendita delle opere d’arte. E’ proprio il mondo che Mario Perniola nel suo L’arte espansa considera vittima di una sconvolgente “bolla speculativa”, quella che dalla fine degli anni Cinquanta e per cinque decenni ha cercato di rinnovarsi continuamente ricorrendo a tutta una serie di mode più o meno effimere che si presentavano sotto nomi provocatori.
L’interesse era quello di mantenere il meccanismo efficiente “sotto il controllo di pochi galleristi, collezionisti e mediatori rapaci”. L’idea centrale della critica in Perniola è quella per cui, in realtà, tutto questo meccanismo riusciva a illudersi di avere a che fare con opere d’arte mentre in realtà si occupava soltanto di “feticci artistici”.
Pensiero davvero vicino a quello espresso da Jean Baudrillard nel suo Le complot de l’art quando scrive dell’illusione degli artisti i quali, quando pensano di fare arte, producono in realtà “qualcosa di completamente diverso dall’arte”. Oggetti-feticci ma feticci disincantati, oggetti puramente decorativi a fruizione temporale, “quelli che Roger Caillois direbbe: ornamenti iperbolici”. Baudrillard pensa all’arte contemporanea come produzione di oggetti superstiziosi privi però di una credenza profonda dell’arte.
Molto spesso la debolezza dell’artista come intellettuale è in relazione con l’idea che esaurisce il fatto espressivo nell’esecuzione di oggetti prodotti sovente in maniera ritenuta coerente proprio perché ripetitiva, scartando a priori ogni problematicità critica, ogni rischioso rifiuto ecclettico della routine a vantaggio di una relazione stretta con la cultura viva e mutevole. Più funzionale al sistema è certo l’idea degli artisti “brandizzati come merci” (Georgina Adam). L’idea di Robert Hughes, forse il più caustico e radicale studioso d’arte del secondo Novecento, è che proprio Andy Warhol sia colui che esalta il modello tautologico tanto caro a molta cultura figurativa. Soggetto abnorme, silenzioso, opaco e persino malvolente che adora le banalità, strano personaggio con la parrucca che saluta ogni cosa a suon di “Uh, gee, great!” sperando così di sostituire pensieri e giudizi critici.
Si sa, in luce di una ragionevole malinconia, che l’intellettuale ha dinnanzi a sé un numero molto limitato di vie d’uscita dal panorama dell’utile conformismo e che quasi irrealizzabile è la dimensione letteraria dalla figura solitaria, quella che non si vuole adeguare ai must della società, “un ribelle del tutto estraneo al modo di pensare omologato”. Nessuno s’illude di trovare un “cavaliere nobile e puro contro cui si infrange ogni sospetto di interesse materiale” (Said) ma ci si augura sempre di poter fare i conti con gente che intenda gestire almeno il dibattito delle idee, che voglia percorrere strade autonome e che – come invoca Julien Benda – “portino critica e disincanto, lo smascheramento di venerabili tradizioni e di non pochi mostri sacri”. Edward Said propone una figura d’intellettuale e d’artista che stia nel dilettantismo, la stessa nozione vincente che popola il Neoclassicismo tedesco e tutto il Decadentismo europeo studiata e descritta da Jacob Burckhardt. Questa coraggiosa scelta non pone mai il guadagno e neppure il successo al primo posto. E’ un’attitudine che ricorda molto da vicino la figura enigmatica di Marcel Duchamp, almeno quando dichiara nelle sue memorabili Afternoon Interviews raccolte da Calvin Tomkins, “When I produced these things (Readymade) it was really to get out of the exchangeability”. In effetti non si curò mai di commercializzare e vendere quegli oggetti già pronti.
Fuga allora nel dilettantismo volontario nel tentativo di evitare la condanna del doversi mettere al servizio di una routine professionale per poter far parte dell’élite come “membro pensante e responsabile della società”.
Gli esclusivi spazi della dominante cultura sono sempre stati popolati da opere e artisti protagonisti della cosiddetta Insider Art. E’ il regime dell’arte ufficiale, istituzionalizzata, che contempla artisti professionisti che han prodotto e producono un’arte prestigiosa, costosa, nutrita da critici, curatori, musei, investitori e mostre, un’arte padrona del mercato e delle sue leggi.
Nel corso del tempo gli artisti più colti e consapevoli hanno tentato in maniera diversa d’infrangere, per andare oltre, l’idea dell’arte come puro artefatto e la cultura tutta, l’Idealismo tedesco, il Romanticismo e poi l’irruenza teorica e pratica delle storiche Avanguardie hanno trasformato la staticità dell’oggetto artistico in flussi di azioni che sovente si sono accoppiate a ideologie politiche e hanno abbracciato la passione che ne è stata alla base. Sarà il potente scrittore vittoriano Thomas Carlyle con il suo libro On heroes a tracciare il personaggio dell’impavido artista, un aristocratico dell’intelletto capace di guidarci verso autonomi ideali di cultura. L’artista si trasforma in un intellettuale-eroe che si spinge a svalutare le opere materiali fino a proporne una lettura ironica e talvolta distruttiva. Perniola, che sulla scorta di Carl Schmitt considera l’azione artistica “politicamente inclassificabile”, tenta di attribuire all’Insider Art tre diversi atteggiamenti: arte, non-arte (il kitsch) e l’anti-arte (azione artistica che trascende il prodotto artistico) fino a trarre la conclusione che “nei confronti dell’azione massmediatica, quella artistica risulta pateticamente inadeguata”.
Altrettanto inadeguati e falsamente retorici i tentativi di nobilitare gli esiti artistici di vocazioni politiche se non illusoriamente rivoluzionarie.
Per Bonito Oliva “l’artista (intellettuale) organico obliquo si pone come deterrente e riserva, come arsenale in cui sono allestiti linguaggi armati”. E ancora: “L’artista e l’intellettuale sono nuclei di sensibilità armata”.
Da par suo Germano Celant, dopo aver proposto l’arte povera come autentica guerriglia, opta nel manifesto Azione povera per “un’integrazione sociopolitica del fare per eliminare la divisione specialistica e classista che porta alla frantumazione della carica eversiva e produttiva”.
Suggerimenti ingenui e deboli per un’arte originale e per artisti capaci ma sempre attenti a privilegiare il gioco consueto della cura della carriera e dell’arredamento dei salotti abbienti, musei e fondazioni varie.
Specularmente all’Insider Art è stata proposta e prodotta come salvezza l’Outsider Art, quella che David Maclagan indica come un’arte creata da persone che in qualche modo stanno ai margini della società e che non si ritrovano nelle tradizionali richieste sociali, psicologiche ed artistiche della cultura che li circonda. Dall’Art Brut di Jean Dubuffet il fenomeno artistico, opera di emarginati a tutti gli effetti, si è però lentamente dissolto anch’esso al suono dolce dei pifferi del solito mercato e del collezionismo, sempre fiduciosi nelle possibilità del prossimo buon investimento.
Caduti i confini tra Insider e Outsider Art, l’artista pensante si ritrova disorientato in quella che Roland Barthes ha chiamato l’èra dell’“arte post-contemporanea”, un grado zero dell’arte i cui confini “si sono a tal punto allargati da comprendere potenzialmente qualsiasi cosa, vale a dire nulla” (Perniola).
L’assordante silenzio degli intellettuali anche in campo artistico sposa la doppia, tragica incomunicabilità dell’arte verso il pubblico, sentimento ampiamente ripagato dalla totale indifferenza del pubblico verso l’arte.
Malinconia allora per un’arte che, a sentire Jean Baudrillard, tenta di “abolire sé stessa man mano che si esercita”, avere un ruolo esteriore che esiste soltanto grazie alla propria sparizione, alla sua marginalità e irrilevanza culturale irreversibile. Pochi parlano per contrastare il doloroso prolungamento artificiale di “qualcosa che è sparito ma che non finisce di scomparire” (Baudrillard).
Tranquillo, caro Jacques Prévert: “Niente pericolo”, i fiammiferi degli intellettuali sono spenti.