"sapere aude!"
Kant tradito dalla retorica del progresso come accumulo di conoscenza
Spiega la filosofa catalana Marina Garcés nel suo nuovo "Scuola di apprendisti" che siamo sedotti dalla retorica dell'immagazzinamento. E a scuola le competenze sono un ennesimo travestimento di questa mitologia: "Un apprendimento vuoto di contenuti in realtà non è un apprendimento, è un addestramento"
Siete spaesati? Temete un futuro di cui non riuscite a scorgere spiragli prevedibili? Vi sentite in balia di forze incomprensibili, dall’incontrollabilità di un virus all’imperscrutabilità dei meccanismi del vostro smartphone, per tacere dei misteri della geopolitica? Tranquilli: è tutta colpa di Immanuel Kant. Correva il 1784 e, in risposta alla domanda un po’ provocatoria posta da un parroco sul Berlinische Monatsschrift, Kant replicava con le sue celebri pagine su che cos’è l’Illuminismo, quelle col motto “sapere aude”. Riproposto in tutte le salse, contiene un equivoco di fondo: il verbo è l’infinito di sapio, che non significa “sapere” (ossia accumulare conoscenze) bensì “discernere”, un po’ come quando si assaggia qualcosa per scoprire se sia dolce o salata. L’etimologia, infatti, è la stessa di “sapore”.
L’equivoco sul motto kantiano ha ingenerato una retorica del progresso indefinito della conoscenza in quanto accumulo, spiega adesso la filosofa catalana Marina Garcés nel suo nuovo “Scuola di apprendisti” (Nutrimenti): “Siamo sedotti dall’immagazzinamento, analogico o digitale. Ha valore ciò che può essere incrementato: i fondi bibliografici, le sale e opere d’arte, il numero di master e specializzazioni offerti dalle università, l’incremento in qualunque tipo di ranking”. La conoscenza viene infatti concepita come lotta contro l’ignoranza, presupponendo un gioco a somma zero: più aumenta la luce, più diminuiscono le tenebre.
Non è così, la Garcés ha ragione. Se alla lettura di due parole di Kant si aggiungesse l’osservazione del frontespizio dell’Encyclopédie, ci si accorgerebbe che già agli Illuministi era chiaro ciò che ci spiazza. Si vede infatti un lume che non dissipa del tutto le tenebre ma le spinge più in là; l’effetto paradossale è che più aumenta la luce più si ampliano i confini dell’oscurità. Quella fra conoscenza e ignoranza non è un’alternativa, insiste la Garcés, è una tensione polarizzante. Senza l’una non ci sarebbe l’altra.
La scuola, come sempre, è una cartina di tornasole. La retorica dell’istruzione negli ultimi decenni è stata di sostituire le conoscenze (un tempo si chiamava nozionismo) con le competenze. Queste ultime non solo si risolvono sovente in vaghe supercazzole che gli insegnanti ricopiano su moduli che nessuno leggerà, prima di rimettersi a far lezione compitando da manuali che gli studenti si sforzeranno di imparare a memoria per strappare un 7+. Il paradosso, evidenzia la Garcés, è che a scuola le competenze sono un ennesimo travestimento di questa mitologia pseudo-illuminista dell’accumulo emancipatorio: “Un apprendimento vuoto di contenuti in realtà non è un apprendimento, è un addestramento. E una conoscenza che non risvegli la capacità di porre domande e andare oltre è una dottrina, per quanto la si voglia vestire da scienza”.
Il mito delle competenze vive sull’illusoria convinzione che le tenebre possano essere sconfitte cambiando metodo d’insegnamento e trasmettendo agli alunni una forma in luogo di un contenuto; preparandoli insomma a un’adattabilità indefinita, che valorizzi la singolarità di ciascuno fornendogli una fiaccola individuale nelle sue caratteristiche ma universale negli effetti. A ciascuno la propria lanterna, a tutti la stessa luce. E’ però, come dice la Garcés, niente più che una dottrina, una pseudoscienza che dimentica come fra conoscenza e ignoranza viga il rapporto che lega l’area di un cerchio alla circonferenza: “La scienza contemporanea ci mostra l’immensità di ciò che non sappiamo. La tecnologia attuale ci offre strumenti di una potenza sempre più grande ma sempre più difficili da comprendere. Questi fattori confluiscono nella sensazione generalizzata che ci avviamo verso un futuro di cui non sappiamo niente e che assomiglierà pochissimo all’immaginario di progresso che ci lasciamo alle spalle. Ne risulta una situazione paradossale, in cui cresce la conoscenza e cresce l’ignoranza, cresce l’informazione e cresce il disorientamento, cresce la documentazione e cresce la paura”.