Rileggendo "Veniva da Mariupol" di Natasha Wodin
“Che cosa c'entro io con quel destino russo che non aveva mai fine?”
Sulle tracce della propria madre, la scrittrice tedesca racconta la tragedia dell'Ucraina nel '900. Una terra straziata da due dittature, quella di Stalin e quella di Hitler
Accade che certe città acquisiscano fama per motivi tremendi, come bombardamenti, distruzione, tragedie. E’ il caso di Mariupol di cui oggi tutti conosciamo il nome per le atroci immagini che ci arrivano. La città dell’oblast di Donetsk, paragonata a Genova da Zelensky in videoconferenza con Montecitorio, come molte delle città della zona, aveva già subito, nel corso del novecento, occupazioni, guerriglie e devastazioni. Qualche anno fa L’orma, casa editrice di Colle Oppio, ha pubblicato Veniva da Mariupol, decimo libro della tedesca Natascha Wodin, che oggi vale la pena ritirare fuori. E’ il dettagliato e intimo racconto, in prima persona, della ricerca, nata quasi per noia, sulle origini di sua madre, morta suicida quando la scrittrice aveva solo undici anni.
“Mia madre era sempre stata per me una figura interiore”, vaga, “situata nell’indeterminazione che mi ero inventata al di là di ogni realtà politica e storica, una terra di nessuno in cui ero una creatura isolata, priva di origini e di radici”. Wodin, che oggi ha 76 anni, è nata in Germania nel 1945 da genitori deportati, e ha trascorso l’infanzia in uno dei numerosi campi per sfollati presenti in Europa centrale dopo il conflitto, vivendo come un’onta le sue origini russe. Sapeva ben poco della madre, colpevole la quasi totale assenza di documenti e di foto, se non che veniva da Mariupol. Da lì, dall’Ucraina sovietica, era stata appunto deportata dai nazisti a Lipsia e costretta al lavoro forzato in una fabbrica di armi. Dopo aver vissuto le carestie e la guerra civile, “era incappata nel tritacarne di due dittature, prima sotto Stalin in Ucraina, poi sotto Hitler in Germania. Era un’illusione credere di poter trovare, decenni più tardi, in un oceano di vittime dimenticate, le tracce di una giovane donna della quale non conoscevo molto più del nome”. Mariupol negli anni 30 è una città ancora influenzata dalle comunità greche, industrializzata, “vicino alla Crimea, sulle coste di un caldo mare del sud”, il mar d’Azov, il “più tranquillo del mondo”. In un solo mese, nel ’41, vengono fucilati ottomila ebrei. Sessantamila cittadini di Mariupol vengono spediti nei campi di lavoro tedeschi.
Attraverso questa ricerca, tra esperti di genealogia contattati online e telefonate con lontani cugini ritrovati, Wodin non solo ricrea un’immagine della madre, costellata dei volti e delle avventure di parenti fino ad allora sconosciuti, ma inevitabilmente ripercorre la storia di una città e di quelle nebulose zone tra Russia ed Europa. I personaggi di cui pian piano viene a conoscenza – cantanti del partito, armatori alcolisti, commercianti di carbone italiani, zie che devono nascondere la propria nobiltà – sono tutte vittime. “Il suicidio era una specie di tradizione di famiglia?”, si chiede a un certo punto. Quando si sopravvive alla guerra, all’autocrazia degli zar, al terrore dello stalinismo, alla violenza del nazismo, si resta turbati. Le dittature creano traumi, sensi di colpa, dubbi e confusione sulle responsabilità rispetto ad amici uccisi, a famigliari spediti in Siberia. A vivere sotto i regimi si tende a diventare paranoici, a volte si compiono scelte autodistruttive. In questo viaggio, in questa ricerca, l’autrice soppesa l’eredità famigliare, cercando di mettere a fuoco la Storia e le storie. “Che cosa c’entro io”, si chiede a un certo punto, “con il fallimento sovietico e post sovietico, con quel destino russo che non aveva mai fine”, con “questa Russia infelice, l’eterna mater dolorosa, che abbracciava in maniera tanto impietosa i propri figli?”.