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snobismo o vera qualità?

Dai boomer ai millennial. Bentornato vinile

Stefano Pistolini

Il disco di una volta è un universo agli antipodi rispetto al concetto di indiscriminata proliferazione virtuale. È possesso e godimento individuale. Per questo è tornato sul mercato

Dunque, la questione del vinile (che a dirla così già si piomba nel passatismo, come avessimo appena scritto: meglio benzina o gasolio?). Comunque, restando in ambito petrolifero, affrontiamo il dibattito sul vinile, inteso come discografico, materia prima dell’epoca classica e novecentesca dei consumi musicali, a fronte di alcune trascurabili scaramucce culturali che circondano l’argomento, attestandosi in linea di massima sull’interrogativo: è snobismo, venato d’opprimente nostalgia, o nella questione c’è del senso? Ovvero, è possibile che la via analogica fosse sul serio la migliore per attivare la comunicazione tra suoni ed emozioni?

 

Ma prima di inoltrarci nei ragionamenti mettiamo giù due dati: il disco in vinile fa la sua comparsa in America nel 1948, evoluzione del 78 giri in gommalacca. La prima guerra vinilica fu vinta con facilità negli anni Settanta, quando le musicassette provarono invano a insidiarne la dominanza di mercato. Ma le cose andarono diversamente a fine anni Ottanta, quando la comparsa del compact disc digitale e di tutto l’armamentario psicologico che stava dietro a quel nuovo mondo sbaragliarono le resistenze viniliche. La resa definitiva arrivò nel 1993, anno nel quale la produzione dei dischi in vinile su scala industriale venne praticamente interrotta nel nostro paese. Un lutto, una rivoluzione epocale, che sarebbe però presto impallidita al cospetto del verbo veramente nuovo introdotto dal millennio entrante: lo streaming, la definitiva e totale digitalizzazione della musica, il trionfo informatico, la fine dei negozi di dischi e perfino dell’acquisto del disco come rituale fin là insostituibile. Ma è un fuoco sotto la cenere.

 

Nel 2011 l’istituto Nielsen certifica l’avvenuta ripartenza del consumo di dischi in vinile con un aumento da 2,8 a 3,9 milioni di LP venduti negli Stati Uniti negli ultimi dodici mesi. Anche in Italia la produzione e la vendita del vinile, riprendono quota e cresce il numero degli artisti che pretendono la stampa dei loro lavori su vinile. Nel decennio successivo il supporto conosce una seconda crescita esponenziale delle vendite fino a consumare la tremenda vendetta nell’anno 2021, allorché le vendite di esemplari discografici in vinile tona a superare quella dei compact disc, diventando nuovamente, dopo 35 anni, il supporto fisico musicale più venduto. Si scopre che tanti figli dei vecchi consumatori stanno trascinando pesanti casse di Lp su dalle cantine dei genitori, per saziare il loro feticismo nei confronti la cultura vintage. Ma c’è di più: il revival del vinile approfitta dell’apparizione sul mercato di giradischi economici e di una diffusione divenuta nuovamente capillare dell’oggetto in questione, dopo essere timidamente riaffiorata con la selezione limitata d’album venduti più che altro nei negozi di abbigliamento modaiolo. 

 

L’anno scorso la popolarità del formato-vinile negli Stati Uniti ha lanciato le vendite a 42 milioni di pezzi, il doppio dell’anno precedente. E il boom continua, pilotato dagli ascoltatori più giovani, bramosi di assaggiare l’era in cui la musica sembrava accessibile, sexy e divertente. Nel 2021, 87 nuovi album hanno venduto più di 50 mila copie in vinile, nel 2020 erano solo 51. Il vinile crea un ponte tra i boomer e la progenie millennial, mentre deflagra la mitologia della puntina e a prima vista tutto somiglia a un’inattesa resistenza ai social. Si cerca proprio quel suono riprodotto in modo meccanico che produce imperfezioni, irregolarità e distorsioni, salutate come “interessanti” e “naturali”, al confronto coi sistemi digitali e il loro gelo perenne. S’intitola proprio “Vinile” la serie tv creata da Mick Jagger e Martin Scorsese per Hbo, che trasforma in mito l’ascesa del rock e del punk nella New York anni Settanta. E il revival prolifera, provocando un segnale interessante: I cambiamenti nelle tecnologie producono cambiamenti nelle attività sociali e annunciano scenari inattesi. Il bello è che qui non si sta nemmeno parlando di cosa questi consumatori vogliano ascoltare, ma solo di come desiderano farlo. Il che rende ancora più suggestivo il paradigma. 

 

Ma adesso mettiamo da parte le informazioni e dedichiamoci alle cronache emotive che sono la parte più sorprendente di cui ragionare. Perché ormai, da una certa quantità di tempo, avanziamo in questo mondo della totale accessibilità, della disponibilità orizzontale. Dal momento che dobbiamo trasformarci tutti in zelanti consumatori, tra le altre cose ci viene offerta, a prezzi vantaggiosi, la possibilità di disporre di tutta la musica o quasi, a portata di click. La subentrata immaterialità dei suoni ha abbattuto i costi e modificato le economie e perciò godere (con gli inevitabili compromessi del caso) di un servizio streaming, ci mette a disposizione lo scibile musicale – a patto che poi il resto lo produca la nostra fantasia. 

 

Al punto, come abbiamo appreso in tempi recenti, la più politica delle mosse che un musicista oggi possa mettere in atto oggi – per esempio per protestare contro qualcosa che non gli va a genio – è quella di ritirare la sua produzione dal libero accesso offerto 24/7 da un qualsiasi Spotify o iTunes, come ha fatto di recente la combriccola dei canadesi capeggiati da Neil Young, nella presa di posizione contro i podcast dei No vax. Ecco: il mondo della discografia vinilica risiede ad anni luce da qui, il che diffonde una palpabile sensazione di volgarità quanto al come siano andate a finire queste cose. 

 

Il disco, anzi il long playing di vinile (il discorso sui 45 giri andrebbe declinato a parte, secondo altri parametri), si colloca in un universo che sta agli antipodi rispetto al concetto di indiscriminata proliferazione e si iscrive invece all’idea di possesso e godimento individuale, nei dintorni del più sano autoerotismo da cameretta. Il melò della nascita e dello sviluppo della relazione tra un Lp e il suo legittimo acquirente, in quel secondo Novecento ormai storicizzabile, corre tutto sul filo del corteggiamento, dell’attesa, del desiderio, infine della conquista che prelude al lungo, modulato e cangiante consumo del rapporto – la cui condivisione con gli altri arrivava solo dopo, accessoria e secondaria, attivata a cose fatte. Comprare un vinile, per un ragazzo dei Settanta, significava individuarlo, dargli la caccia, sceglierlo tra altri infiniti, attraenti concorrenti, accordargli fiducia, aspettarlo e finalmente farlo proprio, dopo aver messo insieme la rispettabile cifra per l’acquisto (altri, i malintenzionati, complottavano escogitando metodi per fregarli, gli ambitissimi vinili, puntando su qualche location fuori luogo, magari un grande magazzino, dove quella merce preziosa non era debitamente custodita – ma questo ci condurrebbe fuori tema, sebbene sia una storia che meriterebbe approfondimenti, perché ci fu un tempo di ladri di vinili perfino con giustificazioni d’imbelle politicizzazione…).

 

Al contrario di quanto accade oggi, l’esperienza del long playing, prima ancora d’essere acustica, era sensoriale: all’inizio era l’oggetto. Che, pure nella sua serializzazione, manteneva una parvenza di unicità – pensate a quei desperados pronti a tutto per assicurarsi una copia “d’importazione” del nuovo album del loro beniamino, perché si sapeva che la qualità era un’altra, perché il vinile era più pesante e possente, la pressatura migliore e perciò l’intensità sonora era diversa. Per non parlare della confezione, della carta degli involucri, della stampa delle decorazioni, per non parlare dei gadget, che magari una volgare edizione italiana arrivava a rimuovere o, peggio ancora, degli ambitissimi testi delle canzoni che – inspiegabile, al confine col sadismo! – spesso le etichette nostrane decidevano di sottrarre alla fame di sapere dei fan, generando anni d’irrisolti interrogativi su cosa cacchio cantasse Lou Reed in quel versetto a mezza bocca. Altri mondi, difetti d’informazione, workaround, arte di arrangiarsi, sbattimenti infiniti – eppure non era così male. Insomma, col tuo nuovo vinile, se non era un matrimonio, poco ci mancava: si sceglieva, lo si acquistava, lo si portava a casa e si cominciava consumarlo, in modo sistematico e al tempo stesso abbandonico, suonandolo a ripetizione, assorbendone forme, contenuti e atmosfere fino a farsene un’idea precisa, che poteva essere l’inizio di un amore che poteva durare per sempre, oppure che si sarebbe bruscamente interrotto, perché le promesse erano state tradite e l’offerta s’era rivelata inferiore alle aspettative. 

 

Nel frattempo si era comunque sviluppata la fisicità del rapporto con l’oggetto, col robusto rettangolo di cartone che conteneva il microsolco, la copertina spesso apribile, l’arzigogolata concezione dell’artwork. L’album era sempre là, visibile nei dintorni della nostra vita casalinga, conviveva con noi in modo proporzionale all’affetto riservatogli: è questo il motivo per cui certe cover e certi dischi abitano nel nostro subconscio, sono flash perenni della nostra storia, mantengono un potere evocativa che non teme rivali. Sono stati i segni della nostra vita, in sintonia con le armonie che sapevano sprigionare, affidati all’altro strumento di cui si è quasi perso traccia, chiamato “alta fedeltà”. Questo erano i dischi di vinile, a cui dedicarono attenzione e prestazioni sconvolgenti grandi artisti del visuale, inesorabilmente attratti dall’idea d’entrare a far parte del più grande gioco in città, quello della deflagrazione della pop culture. Pura stimolazione dei sensi nella zip zippabile di Andy Warhol sulla copertina di “Sticky Fingers” degli Stones, sensualità alla portata di chiunque ne intuisse le prospettive. Eppure tutto un mondo che si è autodistrutto, nella frenesia dell’inseguimento al nuovo. Ed è giusto così, perché la distrazione e la perdita sono gli effetti collaterali del cambiamento. Salvo l’insorgere dei riflussi. Proprio come il revival del vinile di cui stiamo parlando. Che vive sulla forza di un’intuizione e sulla ricerca di un’emozione forse riproducibile: ridare alla musica, almeno a certa musica, la sua dignità originale.

 

È possibile? Funziona? Ci si riesce? Conviene non proseguire il discorso, per non tirare fuori dall’armadio i consueti paramenti sacri dei boomers, quelli che tutto sanno perché come ne hanno fatto l’esperienza loro, poi nessuno mai. Dunque mettiamo da parte la misurazione del possibile impatto emotivo del possesso di un oggetto culturale come un long playing in vinile nell’anno 2022 e lasciamo a chiunque decida di sperimentarlo il piacere di valutarlo. E invece salutiamo con entusiasmo, tenendo a bada perniciose commozioni, il ritorno accertato di questo genere di consumi. Perché anche noi – la confessione è d’obbligo – a suo tempo siamo stati nel novero dei traditori, coloro che in fretta abiurarono al vinile e cominciarono a straparlare dell’indubbia superiorità del digitale, della futuribile pulizia del suono e di altre fregnacce sparse, lasciando immeritatamente indietro il gusto tutto analogico dei ben noti scricchiolii, o del vago rimbombo che precedeva la pioggia dei suoni. Perfino le oscene scatolette di plastica dei compact disc non ci disgustarono come avrebbero dovuto, anzi, le loro dimensioni smunte ci sembrarono modernissime.

 

Adesso però, dopo essere stati a guardare, con scetticismo e perplessità, il succedersi degli eventi, adesso che abbiamo capito che di nuovo la cosa giusta che un musicista può fare anche al presente è mettere le proprie idee in formato analogico a 33 giri, affidando a qualcuno bravo la confezione fisica del tutto, adesso che abbiamo intuito lo stimolo elettrizzante che questo ritrovato protocollo potrebbe provocare, adesso che possiamo tornare a dire che i vinili costano cari e quindi bisogna scegliere con cura quale fare nostro, adesso – soprattutto! – che è tornata a non bastarci più la disponibilità di ogni canzone del mondo su un telefonino coreano, adesso che, non sappiamo spiegare perché, vogliamo tornare a possedere the real thing – ecco adesso manca davvero poco perché ci si metta alla ricerca dell’altro grande desaparecido di questa storia: il negozio di dischi, tempio dell’estasi. Niente a che vedere con Amazon e con gli acquisti online: quello è il posto dove si toccano, si soppesano, si ascoltano, si assaggiano i suoni e dove si finisce perfino a discutere di musica, magari con qualcuno conosciuto sul posto. Discutere di musica: vi rendete conto? Un’esperienza che pensavamo non sarebbe successa più, archiviata, rimossa. Intere mezze ore a enumerare dischi, titoli, date, mentre nell’aria risuonano note nuovissime. Caspita, ci stavamo perdendo qualcosa! Adesso che l’abbiamo capito, è ineludibile provvedere. Non sarà lo stesso, ci saranno sapori dolceamari, sbandamenti e déplacements, ma da questo gran miscuglio di passato e presente potrebbero generarsi delle prospettive dalle tinte meno acide di quelle che intravediamo tutto attorno.

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