Il memoir-biblioteca di Daria Bignardi cuce la sua vita a quella di chi legge
Nessuno può dire di avere letto per intero "Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici", perché mentre leggi ti distrai, pensi ai libri che hai letto tu e a com'eri da giovane
"Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici" di Daria Bignardi è uno di quei libri che nessuno può dire di avere letto per intero, perché mentre leggi ti distrai, pensi ai libri che hai letto tu e a com’eri da giovane, accavallandoti ai suoi racconti (per esempio ti ricordi di quando a 15 anni leggevi “I Buddenbrook” di Thomas Mann ascoltando il primo disco dei Doors e così, da allora, per sempre, ti succede che quando senti “The Crystal Ship”, invece che a Los Angeles, California, riprecipiti nell’atmosfera di un Natale di metà Ottocento a Lubecca). “Libri che mi hanno rovinato la vita” è qualcosa che prima non c’era. E’ un’autobiografia-libreria, un memoir-biblioteca che inevitabilmente cuce la vita dell’autrice a quella di chi legge. E’ la metà di un libro perché l’altra l’abbiamo tutti scritta in segreto dentro le nostre teste, esistendo e leggendo (e per questo pretende una recensione divagante e zigzagante).
Incontrando i cento autori citati da Bignardi – Sologub, Bassani, T. S. Eliot, Djuna Barnes, Raymond Carver, Virginia Woolf, Ezra Pound e Celestino – continui a chiederti, soprattutto, come mai il dolore sia così attrattivo e narrabile, mentre il piacere così sfuggente e restio a farsi acchiappare dalle parole. Scrittori e scrittrici mitizzano il dolore per rendersi più interessanti, narcisi che non sono altro? L’attrazione per il dolore è una posa? Un retaggio romantico? Oppure soltanto il dolore spinge a scrivere perché se stai bene fai altro? E però, se è vero che – come dice Tolstoj (e Fabri Fibra ripete) – chi è felice ha ragione, perché i libri felici sono più rari e meno considerati di quelli infelici? Possibile che il dolore sia più bello della felicità? Leggendo continuavo a ripensare a una frase di Kurt Vonnegut (per inciso, era il sosia di mio padre) che si sente ripetere spesso perché sembra la risposta definitiva a uno dei problemi invalicabili dell’umanità: la percezione della prevalenza del dolore sul piacere. Dice soltanto: “Quando siete felici fateci caso”.
E’ un pensiero semplice che in apparenza scioglie il paradosso più inestricabile della felicità, il fatto che se viene notata, appunto, scompare. E’ sufficiente che per un istante la nostra attenzione si distolga dal momento felice per registrarlo e farci caso, perché la consapevolezza dissolva per sempre l’emozione di quel momento. La felicità avrebbe la stessa natura di Babbo Natale, dello yeti e degli unicorni: è possibile che esista, ma è impossibile che sia vista perché c’è soltanto se nessuno si accorge di lei. La suprema maledizione di chi è felice è essere cieco al presente perché la felicità prende forma solo nella speranza o nel ricordo, come un amore di cui allora non ci siamo accorti o come quell’estate di tanti anni fa che credevamo sarebbe stata la prima di molte, e invece non sarebbe mai più tornata.
L’infelicità si comporta al contrario: esige attenzione e, per questo, ha a che fare con la conoscenza. I romanzi e le poesie, e tutta l’arte, traboccano di infelicità perché i pensieri e le parole infelici sono strumenti con cui proviamo a conoscerci e a maneggiare quello che non capiamo, a cominciare appunto dal fatto che siamo attratti dal male o, peggio, da ciò che è meschino e squallido. Il problema è che questa attrazione ha un costo. Per tutto il libro Bignardi gira intorno a quel famoso aforisma di Nietzsche, che dice: “Se guarderai troppo a lungo nell’abisso, l’abisso finirà per guardare dentro di te”. Il male, cioè, è male perché ti attira e deforma, è una visione che si trasforma in specchio. In questo senso i libri cattivi sono davvero pericolosi (l’inizio di “Fahrenheit 451” di Bradbury è: “Era una gioia appiccare il fuoco”). Per fortuna, però, i libri si muovono, cambiano, non stanno mai fermi. E’ questa la loro magia.
“Libri che mi hanno rovinato la vita” lo spiega benissimo: i libri sono incontri che dipendono dal momento in cui avvengono, come gli amori e le amicizie che, un minuto dopo, non sarebbero mai cominciati. Molti libri amati da ragazzi oggi, a riprenderli in mano, ci sembrano pomposi, noiosi o banali. Accade soprattutto – accade anche in “Libri che mi hanno rovinato la vita” – che i libri che fanno male in una stagione ci facciano bene in un’altra, perché i libri confluiscono tutti in un unico libro (e, quando se ne stanno chiusi sugli scaffali delle librerie, secondo me in segreto si scambiano le pagine, per divertirsi).
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