facce dispari
Il sorriso del presepista felliniano. Intervista a Vincenzo Mollica
"Sono entrato da due anni nella condizione di apprendista pensionato e non è per niente triste se si diventa anziani in modo gentile. Il più bel complimento che possano farti è che sei tornato bambino"
La suddivisione del professor Bellavista tra presepisti e alberisti andrebbe completata con l’ulteriore ripartizione tra chi fa il presepe ogni Natale e lo smonta dopo l’Epifania, ossia popolo e borghesi alla Luca Cupiello, e chi lo lascia esposto in permanenza come usava l’aristocrazia partenopea. Come usa Vincenzo Mollica, giornalista, scrittore, disegnatore che ha dedicato al presepe permanente un angolo del salotto, colmo dei quadri di artisti amici che lo omaggiarono. Emiliano un po’ calabrese, infanzia in Canada e una vita a Roma ma trascorsa in giro, Mollica ama riaccendere le lucine presepiali anche in aprile, come mai un eduardiano farebbe e un felliniano fa sempre. Perché all’uno ’o presebbio piace mentre ne allestisce la minuta razionale architettura, l’altro invece vuol tenerlo pronto per sognare in qualunque momento. Né i seri problemi agli occhi hanno spento in Mollica la rêverie.
Quand’è che il senso della vista si fa arte?
Fellini, Pratt, Manara, Pazienza, dotati di uno sguardo oltre il reale, mi hanno insegnato a vedere quanto abbiamo sotto gli occhi e non vediamo. Raccomando a tutti di non considerare la vista un’abitudine scontata, ma di goderla fino all’ultimo millimetro.
Se viene meno?
Andrea Camilleri mi ha insegnato l’arte di non vedere. Avevamo la stessa patologia con effetti speciali: un giorno t’appare un fascio di luce innanzi agli occhi, l’indomani è buio. L’importante è non perdere memoria dei colori. Camilleri ripassava mentalmente i quadri di Picasso, Caravaggio, Chagall prima di dormire, e a lui come a me accadeva di fare sogni di luce mai sperimentata da vedente. Spero di non dimenticare i colori della vita, soprattutto l’Indian Yellow, il mio preferito: un festoso giallo autunnale che ho usato in tutti i disegni e mi richiama l’infanzia canadese.
Borges è un altro esempio di chi non perse i colori nell’ombra.
Lo conobbi a Milano da studente. Aveva occhi così chiari e belli che non avresti detto fossero di un cieco. M’avvicinai, poggiai una mano sul bastone e sorrise. Non dissi una parola e me n’andai per l’emozione. Sensazione simile, assai dolce ma a parti inverse, la provai tanti anni dopo quando Battiato venne a Roma per l’ultima intervista, avendo già nella parola qualche esitazione. Mi chiese come stavo nel cammino dalla luce verso l’ombra, m’accarezzò gli occhi con due dita e disse: ‘Vincenzo, avverrà tutto molto lentamente’. Così sta accadendo.
Ci crede che ‘torneremo ancora’, come nell’ultima canzone di Battiato?
Visitando i cimiteri ho sempre visto foto di una tristezza esasperante sulle lapidi, con quei sorrisi ambigui e spettrali. Ho detto a mia moglie e mia figlia che per me usino una foto di Paperica, il mio alter ego disneyano disegnato da Giorgio Cavazzano, con l’epitaffio: ‘Qui giace Vincenzo Paperica/che tra gli umani fu Mollica’. Tornando a Battiato, i suoi pensieri erano già orientati sull’altrove. Gli chiesi cosa voleva restasse di lui. Disse: un suono.
Come lui, attraversò quello stato intermedio lo scrittore Daniele Del Giudice, che fu suo amico e le scrisse anche la quarta di copertina di un romanzo.
Una persona di rara sensibilità. Lo conobbi grazie a Fellini, che aveva letto ‘Lo stadio di Wimbledon’ e se n’era innamorato. I libri di Del Giudice meritano di essere goduti tutti con passione.
Quali libri regalerebbe a un amico?
I Simenon che mi fece scoprire Fellini quando avevo letto solo i Maigret: ‘La neve era sporca’, ‘Lettera al mio giudice’, ‘L’uomo che guardava passare i treni’. Poi ‘Piano inclinato’, il suo più bel romanzo, che Federico mi regalò per un compleanno con ‘America’ di Kafka. Sono cose che restano, come diceva mia nonna: ‘Ricordati, Vincenzo, di seguire sempre le cose che rimangono’.
Quali per lei?
I libri fondamentali, il cinema di Fellini, i fumetti di Pratt, le poesie di Merini, la voce di Mina.
Guarda la televisione da quando l’ha lasciata?
Purché sia servizio pubblico e non un esercizio di narcisismo. Chi va in tv non deve contagiarsi di televisionite, la tv deve essere fonte di comprensione per tutti. Nei talk show non bisogna parlare nel proprio centimetro quadrato.
E i reality?
Quando sono palestre per giovani artisti sono rispettabili; se riguardano la condizione umana preferisco vivere la vita che rappresentarla. Meglio una buona commedia di una finta commedia.
Usa i social?
Su Instagram tengo una specie di diario dove spiego ciò che penso in meno di un minuto. Ho scoperto che in un minuto puoi raccontare tutto. Ora mi piacciono i pensieri fatti in rima, come quelli di Tofano sul Corriere dei Piccoli. Mi si è ristretta la scrittura e in due versi potrei dire che ‘omerico non fui per poesia/ma per mancanza di diottria’.
Com’è invecchiare?
Sono entrato da due anni nella condizione di apprendista pensionato e non è per niente triste se si diventa anziani in modo gentile. Il più bel complimento che possano farti è che sei tornato bambino. Se invece dicono: sei sempre un giovanotto, significa che sei rincoglionito.
Quali sono stati gli anni migliori?
Sono stati tutti buoni. Una volta pranzai a Milano con Pratt e Paolo Conte, che aveva musicato una trasposizione teatrale di Corto Maltese. Pratt guardò bene il menù poi chiese due porzioni di ciò che aveva scelto. Due di tutto. Era un modo per sorridere alla vita. Bisogna avere un sorriso di scorta da usare quando serve. Perché le occasioni di perdere il primo sono sempre tante.