Dettaglio da un poster di Sergio Canevari del 1918 intitolato “La pace russa” (Wikipedia) 

Lenin e la Grande guerra

L'Ucraina, la trattativa e quella pace voluta a ogni costo. Il precedente di Brest-Litovsk

Siegmund Ginzberg

Fu firmata nel marzo del 1918 ain Bielorussia tra gli Imperi centrali e i bolscevichi ma non mise fine alle stragi. Dagli orrori tedeschi fino al genocidio degli armeni

Il negoziato era andati avanti, a spizzichi e bocconi, tra interruzioni, riprese, armistizi e violazioni dei cessate il fuoco, offensive e controffensive sul terreno, da dicembre al marzo dell’anno successivo. Prima che finisse l’anno il trattato di pace era già nullo, perché una delle due parti firmatarie aveva cessato di esistere. Riprese la guerra, più feroce, più atroce di prima verso i civili. Succedeva oltre un secolo fa. La guerra in Ucraina risale in qualche modo anche a quella trattativa su un vagone ferroviario a Brest-Litovsk. Forse non è un caso se gli attuali negoziati tra Ucraina e Russia hanno avuto inizio nella stessa località, dove quasi convergono i confini di Bielorussia, Polonia e Ucraina.

 
Era il penultimo anno della Grande guerra. I bolscevichi avevano preso il potere con la Rivoluzione d’ottobre. Lenin aveva deciso di fare una pace separata con le potenze centrali, Germania e Austria-Ungheria. L’aveva promesso ai contadini che non ne potevano più, abbandonavano le trincee. La delegazione russa a Brest-Litovsk era guidata da Adolph Abramovich Joffe. Poi gli sarebbe subentrato Trockij. All’inizio non si riusciva a cavare un ragno dal buco. I bolscevichi proponevano una “pace democratica generale, senza annessioni né riparazioni, sulla base del diritto dei popoli a una libera autodeterminazione”. Insomma un’uscita dalla guerra “a sinistra”, consona peraltro alla dottrina del presidente americano Wilson. I tedeschi volevano che la Russia uscisse dalla guerra, in modo da poter spostare le divisioni così liberate sugli altri fronti (l’avrebbero fatto appena firmata la pace, per l’Italia fu Caporetto). E volevano tenersi i territori fino ad allora conquistati, parte dell’Ucraina e parte della Polonia. Ciascuno rimaneva sulle sue. 

 

Lenin aveva deciso di fare una pace separata con Germania e Austria-Ungheria. L’aveva promesso ai contadini che non ne potevano più

 
Joffe scrisse a Lenin che la trattativa era arenata, che con quei farabutti, imperialisti fottuti di tedeschi non si poteva negoziare. Frustrato, chiese di essere esonerato dall’incarico, e di essere assegnato al fronte. Lenin gli rispose con un telegramma che è pubblicato nelle sue Opere complete, e che mi rimase impresso quando le leggevo da giovane. “Caro compagno Joffe – recitava –, capisco la tua frustrazione, ma l’incarico in cui uno si trova in una determinato momento dipende dal caso. Cosa dovrebbe dire il compagno Stalin, al quale il caso ha voluto che fosse affidato un incarico ancora più gravoso e frustrante del tuo, quello di commissario alle nazionalità [che in quel momento si scannavano l’un l’altra]? Ti prego perciò di rimanere al tuo posto”. Faceva un certo effetto ogni volta che nel vecchio Pci usavo la risposta di Lenin per convincere o consolare qualcuno che si lamentava degli incarichi per un motivo o per l’altro insoddisfacenti cui l’aveva costretto “il caso”. 

 

Il rappresentante bolscevico alla sua controparte austro-ungarica: “Spero davvero che riusciremo a fare la rivoluzione nel vostro paese”

  
Il povero Joffe era un idealista. Ecco come ne parla la sua controparte per l’Austria-Ungheria a Brest-Litovsk, il conte Ottokar Czernin: “Il capo della delegazione russa è un ebreo, di nome Joffe […] Tutta la sua teoria è fondata semplicemente sull’applicazione universale del diritto di autodeterminazione dei popoli. Così le nazioni liberate sarebbero condotte ad amarsi l’un l’altra […] Gli ho detto che noi non eravamo proni ad imitare l’esempio russo [… e che] se lui insisteva nella sua visione utopica non sarebbe stata possibile alcuna pace. E gli conveniva prendere un treno per tornare indietro. Lui mi guardò, come attonito, con occhi gentili, e rimase in silenzio per un po’. Poi continuò in tono – per me indimenticabile – amichevole, quasi supplichevole, e mi disse: ‘Spero davvero che riusciremo a fare la rivoluzione nel vostro paese’”. Tra i due, l’imperativo morale quella volta stava dalla parte della Russia.

 

Ai tedeschi e agli austriaci non stava affatto a cuore l’autodeterminazione delle nazioni. Gli interessava spostare le truppe sul fronte occidentale

 
Ai tedeschi non stava affatto a cuore l’autodeterminazione delle nazioni. Meno ancora all’Austria, che di nazionalità ne aveva ancora di più (gli ordini di mobilitazione nella Prima guerra mondiale erano partiti in 50 lingue diverse). Gli interessava poter spostare le truppe sul fronte occidentale ed esercitare la propria sfera di influenza su Lituania, Curlandia, Lettonia, Russia bianca (oggi Bielorussia), e soprattutto sull’Ucraina, il grande granaio, fondamentale per gli approvvigionamenti. Per far pressione sulla controparte continuavano ad avanzare e acquisire territorio. I bolscevichi dal canto loro fomentavano scioperi generali in Europa. Le trattative si interruppero, e poi furono riprese. Nel febbraio 1918 i tedeschi stavano avanzando verso Pietrogrado. Lenin dette istruzione a Joffe, e a Trockij che si era avvicendato a lui, di chiudere a ogni costo. Anche a costo di pesantissime rinunce territoriali e anche a costo di accettare la pace separata che l’Ucraina (divenuta repubblica indipendente già poco dopo la Rivoluzione russa del febbraio 1917, sia pure nell’ambito di una Federazione russa) aveva nel frattempo già firmato con le Potenze centrali. E’ a questo che alludeva Putin quando ha detto che l’Ucraina non esiste, sarebbe stata “un’invenzione di Lenin”.

 
In effetti la pace di Brest-Litovsk fu firmata in un momento di particolare difficoltà, anzi di vita o di morte per la neonata Unione sovietica. Sia Joffe che Trockij erano contrari a firmare le durissime condizioni tedesche. A un certo punto avevano teorizzato addirittura una situazione di “né guerra né pace”. “L’idea di non firmare la pace, di non fare la guerra, di smobilitare l’esercito e, disarmati, appellarsi alla coscienza rivoluzionaria del proletariato tedesco e austro-ungarico”, il modo in cui l’avrebbe in seguito raccontata lo stesso Joffe. Bella idea, ma campata in aria. Non poteva funzionare. Mi fa venire in mente un’altra bella idea, ma totalmente impraticabile, in voga nella sinistra dei miei anni giovanili nel Pci, la “terza via” né comunista né socialdemocratica. 

 

 Il vecchio Impero degli Zar perdeva il 27 per cento delle terre arabili. “Condizioni umanissime” le avrebbe anni dopo definite Hitler

 
Il trattato di Brest-Litovsk, firmato il 3 marzo 1918, fu ratificato in Russia il 15 marzo, in Germania il 22 marzo. Il vecchio Impero degli Zar perdeva 780.000 chilometri quadrati , il 27 per cento delle terre arabili, il 26 delle ferrovie, il 33 dell’industria tessile, il 73 della produzione di acciaio, l’89 delle riserve di carbone. “Condizioni umanissime” le avrebbe anni dopo definite Hitler. In Russia c’era stato uno scontro accesissimo tra partigiani della resistenza passiva e quelli dell’accettazione delle condizioni tedesche. Lenin, che era il capo indiscusso del Partito bolscevico, mise in gioco tutto il proprio prestigio in favore della pace. Allora neanche lui poteva decidere tutto da solo, come fa ora apparentemente Putin. Lenin minacciò le dimissioni in caso il Comitato centrale del Partito avesse espresso parere contrario. Fece ricorso a un apologo in cui si teorizzava la necessità assoluta del compromesso. “Cosa fareste se la vostra auto viene fermata dai banditi e quelli, puntandovi contro la pistola, vi chiedono o la borsa o la vita? Vi fate sparare? No, gli date la borsa e cercate di giungere vivi al prossimo posto di blocco. Denunciate i banditi alla polizia e cercate di far sì che vengano catturati e puniti”. La discussione fu durissima. Lenin la spuntò. 

 
Il trattato era invero assai indigesto per la Russia. Prevedeva la rinuncia a Finlandia, Estonia, Livonia, Curlandia, Lituania, Polonia e Ucraina, il ritiro delle truppe russe dall’Armenia e dalla parte orientale dell’Anatolia, la restituzione alla Turchia di Kars e Batum, il riconoscimento del trattato tra Potenze centrali e l’Ucraina (quindi di una sorta di sfera di influenza, se non di un vero e proprio protettorato sull’Ucraina). In cambio la Quadruplice alleanza (modo alternativo a “Imperi centrali” per definire l’alleanza tra Germania, Austria-Ungheria, Bulgaria e Impero ottomano) rinunciava a qualsiasi indennità di guerra e si impegnava a sgomberare gli altri territori occupati. Non è dato sapere se avrebbero tenuto fede all’accordo. Di lì a qualche mese alcuni dei firmatari, l’Impero austro-ungarico, l’Impero del Kaiser, l’Impero del Sultano turco, sarebbero usciti di scena, anzi si sarebbero liquefatti, travolti dal peso della sconfitta e da rivoluzioni interne. I bulgari, che si erano presentati con un loro improbabile “Sogno di nuova Bisanzio”, di egemonia regionale nei Balcani, non ottennero nulla.

 

 Di lì a qualche mese alcuni dei firmatari, l’Impero austro-ungarico, l’Impero del Kaiser, l’Impero del Sultano turco, si sarebbero liquefatti

 
Una delle ragioni di tanto rapida dissoluzione, dopo anni di micidiale logoramento, e di immane perdita di vite nella guerra di trincea, era stato l’ingresso in guerra, a fianco dell’Intesa, degli Stati uniti. Un’altra era il fatto che i tedeschi si erano fatta, sin dall’inizio del conflitto, una cattiva fama, di orchi perpetratori di orrori e crimini di guerra, invadendo il Belgio neutrale, bruciando la biblioteca di Lovanio, cannoneggiando la popolazione civile e la cattedrale di Reims, lasciandosi dietro una scia di stupri e saccheggi, usando i gas tossici. E infine affondando coi loro sottomarini il transatlantico Lusitania, partito da New York con 1.300 passeggeri civili a bordo, tra cui molti cittadini americani (fu questo ultimo “orrore” a portare all’ingresso in guerra degli Stati uniti, fino a quel momento neutrali). In fatto di crimini di guerra, anche i turchi avevano messo un carico non da poco: il genocidio degli armeni, considerati “quinta colonna” della Russia. Agli altri orrori se n’era aggiunto, alla fine, uno pressoché invisibile, all’epoca segreto e scarsamente considerato: la pandemia che poi ci siamo abituati a chiamare Spagnola. Era stato il virus a scompaginare definitivamente ogni piano di ulteriori attacchi e contrattacchi, a imporre la pace per esaurimento di combattenti. 

 
A complicare le cose, a pesare sugli sviluppi successivi, ci fu il fatto che a Brest-Litovsk c’erano alcuni grandi assenti: gli alleati occidentali della Russia. Sarebbe come sperare nel successo di un negoziato sulla pace in Ucraina da cui siano assenti, o peggio tenuti deliberatamente fuori America, Europa e Cina. A dire il vero le potenze dell’Intesa erano state invitate dalla Russia a prendere parte alle trattative e, prima ancora, ai contatti che avevano portato all’armistizio. Ma non avevano nemmeno risposto. Volevano che la Russia restasse al fianco degli alleati e continuasse a fare le guerra ai tedeschi fino alla fine. Presero malissimo la pace separata.

   

Inghilterra e America intervennero in ogni modo per strangolare in culla il nuovo regime in Russia, armarono e appoggiarono gli eserciti Bianchi

 
Inghilterra e America intervennero in ogni modo per fargliela pagare, strangolare in culla il nuovo regime in Russia, armarono e appoggiarono gli eserciti Bianchi. L’Armée française d’Orient aveva le sue gatte da pelare, sui fronti rumeno e bulgaro e poi ancora più a sud, dove occupò Costantinopoli e partecipò alla spartizione della Siria non più ottomana (tutto si lega, allora come oggi). L’Unione sovietica si difese fomentando rivoluzioni in Europa, invadendo la Polonia (e mal glie ne incolse, Tuchacevskij dovette ripiegare davanti a Varsavia), e mettendo in riga l’Ucraina che voleva far da sola. Gli eserciti passavano e ripassavano, incendiando, saccheggiando, sterminando, stuprando, torturando. Milioni di profughi in fuga dalla guerra si diressero verso occidente. Buona parte si fermava in Germania. In maggioranza erano ebrei, che andarono a ingrossare le fila degli ebrei che avevano nei decenni precedenti lasciato la Russia zarista per salvarsi dai pogrom. Era un’emigrazione ingombrante, povera, sgradita. Proprio sul fastidio dei tedeschi per quella immigrazione avrebbe fatto leva l’antisemitismo dei Nazisti. Speriamo non succeda un giorno lo stesso per i profughi ucraini ora accolti con tanta generosità in Polonia e nel resto d’Europa.

 

 La pace seguita alla Grande guerra, la Guerra civile in Russia, il tentativo di occupazione dell’Anatolia arrecarono più sofferenze della guerra stessa

  
Paradossalmente furono la pace seguita alla Grande guerra, la Guerra civile in Russia seguita alla Rivoluzione, la reazione dei turchi al tentativo di occupazione e spartizione dell’Anatolia, a fare più morti, arrecare più sofferenze della guerra stessa. E’ dopo il 1918 che si ebbe la fase più violenta, più sanguinosa, più truculenta, più atroce, più spietata, quella che fece più vittime tra la popolazione civile. Leggere L’Armata a cavallo di Isaak Babel, La scheggia di Vladimir Zazubrin, i versi di Blok, quelli dell’ucraino Maksimilian Vološin, Il dottor Zivago di Pasternak per averne un’idea. 

   

Isaiah Berlin si definiva russo, lettone, ebreo, inglese. Era nato a Riga, passata di volta in volta dagli Zar alla Lettonia alla Germania all’Urss

 
Non finì col primo cessate il fuoco. E neppure con la firma del trattato (anzi dei trattati: violato il primo se ne dovette fare un altro). La guerra ricominciò da capo, con atrocità ancora maggiori, meno di vent’anni dopo, in seguito all’invasione dell’Unione sovietica da parte di Hitler nel 1941. Era cominciata anche quella volta stracciando un trattato: il Patto Molotov-Von Ribbentrop. In base alle clausole segrete di quel trattato la Germania e l’Urss si spartivano la Polonia. Per combinazione, avanzando da estremi opposti, Wehrmacht e Armata rossa si erano incontrati, di nuovo, proprio a Brest-Litovsk. E avevano festeggiato il congiungimento con una parata congiunta. Una foto mostra il generale Heinz Guderian e Semën Krivošein, uno dei generali ebrei di Stalin, che vi assistono affiancati. Poi i nazisti si sarebbero ripresi, oltre alla porzione di Polonia lasciata poco prima ai sovietici, anche i Paesi baltici e l’Ucraina. Avrebbero spinato i territori conquistati con i cingoli dei panzer, seminarono cadaveri e rovine, li avrebbero cosparsi di fosse comuni, per nascondere le vittime delle retate assassine, dei massacri sistematici perpetrati degli Einsatzgruppen. 

   

Un poster di propaganda degli Alleati contro l’uscita della Russia dal conflitto in seguito alla pace di Brest-Litovsk (Wikipedia) 
   
C’è un aneddoto su Isaiah Berlin, il massimo pensatore dei valori della libertà e della democrazia nel Novecento, che spiega bene quanto sia complicata. Berlin amava definirsi allo stesso tempo russo, lettone, ebreo, inglese. Era nato a Riga, spiegò una volta a un giornalista, ma la sua città natale poteva essere indifferentemente collocata, a seconda della circostanze, in Russia, in Lettonia, in Germania, o in Unione sovietica: “Quando nacqui, nel 1909, la Lettonia faceva effettivamente parte dell’Impero russo. Tuttavia, nel corso della Prima guerra mondiale fu annessa dalla Germania, con altri Stati baltici, in base al trattato di Brest-Litovsk. Ma per un tempo brevissimo. Alla conferenza di pace fu riconosciuta l’indipendenza di questi Stati e rimasero felicemente tali finché furono riannessi dalla Russia nel 1940. Tuttavia poi nel 1941 furono rioccupati dalla Germania…”. Un po’ come le foci del Danubio da cui venivano i miei antenati ashkenaziti, occupate a fasi alterne dai turchi, dagli austriaci, dai rumeni, dai russi… Avant e indré, come direbbero nella mia adottiva Lombardia, che alle occupazioni e agli eserciti che vanno avanti e indietro portando devastazione, sfollati, strage e peste sono abituati da diversi secoli (da rileggere il capitolo XXXII dei Promessi sposi).

  
Per quanto rigoroso campione dei valori liberali, Berlin sapeva bene che non esistono soluzioni miracolose, compromessi perfetti, soluzioni assolute. Quelle sono illusioni, o farneticazioni dei fanatici che pensano che la ragione sia dalla loro, e solo dalla loro. Citava in continuazione il Kant che ebbe a osservare che “mai si è fatta una cosa dritta dal legno storto dell’umanità”, per ribadire che “negli affari umani non sono possibili soluzioni perfette, non solo nella pratica, ma nemmeno in principio, e ogni tentativo di produrle è probabile conduca invece a sofferenze, delusioni e fallimenti”. 

  
La pace di Brest-Litovsk non aveva messo fine a guerre e stragi. Così come il Trattato (anzi i trattati) di Basilea del 1795, conclusi tra la Francia rivoluzionaria, i suoi nemici, i fuoriusciti dell’Ancien régime e i loro alleati, nello specifico la sua Prussia, non aveva messo fine alle guerre in Europa, anzi. Malgrado le speranze di Immanuel Kant che vi aveva visto addirittura i fondamenti del Progetto per una Pace perpetua, di una “Lega dei popoli”, una sorta di anticipazione della Lega delle Nazioni e poi dell’Onu. Non era del tutto campato in aria. Effettivamente l’Unione europea, fondata sull’asse Francia-Germania, ci avrebbe poi garantito una pace, se non perpetua, straordinariamente lunga. Il che non toglie che i filosofi vadano presi con le pinze: come è noto, spesso hanno le traveggole. 

 

Non pare, al momento che scriviamo e voi leggete queste righe, che la trattativa tra Russia e Ucraina sia avviata a un cessate il fuoco e a una rapida conclusione. Non tira aria di rese incondizionate. Sembra piuttosto che ci si stia preparando a nuove fiammate, nuovi attacchi e contrattacchi, considerati decisivi per rafforzare le rispettive posizioni al tavolo della trattativa. I mediatori e aspiranti mediatori sono stati frustrati uno dopo l’altro. La pace sembrava vicina, “almeno in linea di principio”, con la concessione da parte ucraina di una futura neutralità, armata e garantita da più parti, e con la disponibilità a discutere del futuro di Crimea e Donbas. E con il riconoscimento dell’esistenza dell’Ucraina, e del suo diritto a scegliersi la leadership che gli pare, da parte di Mosca. E invece no, pare allontanarsi offensiva dopo offensiva, missile dopo missile, massacro dopo massacro, scoperta di atrocità dopo atrocità. Buon senso dice che dovrebbe per forza finire, con una trattativa e un compromesso. Pena l’incancrenirsi in un conflitto perpetuo, che potrebbe durare decenni (Medio oriente insegna) o, dio non voglia, sfociare in una terza guerra mondiale o in una guerra fredda permanente. 

 

La guerra e la pace dipendono molto dalla politica interna dei paesi coinvolti, vedi la Russia oggi. Lo aveva intuito Antonio Gramsci

   
Molto dipenderà dalla politica interna dei paesi coinvolti direttamente, o indirettamente, nel conflitto. L’aveva ben intuito un cervello pensante tra le due guerre, uno che difficilmente inviterebbero ai nostri giorni ai talk-show: Antonio Gramsci. “E’ sempre la politica interna che detta le decisioni, s’intende di un paese determinato: infatti è chiaro che l’iniziativa, dovuta a ragioni interne, di un paese, diventerà ‘estera’ per il paese che subisce l’iniziativa”. (Quaderno 14, §3, Note su Machiavelli). Non ha spiegazioni razionali la decisione di Putin di aggredire l’Ucraina, fare la faccia feroce verso la Nato, esibire addirittura i muscoli nucleari, se non in funzione della sua politica interna. Era stata la politica interna a condizionare il posizionarsi delle diverse correnti e dei leader del Partito bolscevico. Pro o contro la pace di Brest-Litovsk, pro e contro la Rivoluzione mondiale contrapposta al socialismo in un solo paese. Furono le politiche interne dei paesi protagonisti a fare di Versailles una pace sbagliata, che avrebbe nutrito nuove più devastanti guerre. Erano stati i fallimenti di politica interna nella Germania di Weimar a dare spazio alla mostruosità del nazismo e di Hitler. Mosca nel 1933 quasi non si era accorta che Hitler era diventato cancelliere. Per mesi la Pravda non l’aveva nemmeno considerata una notizia. Non sarà la stessa cosa se alla presidenziali francesi prevarrà Macron o la Le Pen. Così come non è la stessa cosa se alla Casa Bianca c’è Biden o Trump. Per chi tifava e continua a tifare Putin, anche a suon di rubli finché se lo poteva permettere, lo sappiamo.

 
Brest-Litovsk era apparsa sin dall’inizio ai protagonisti, in quel cupo dicembre del 1917, come un posto triste. Doveva fare freddissimo, le foto d’epoca mostrano le delegazioni che arrivano in auto e scendono nella neve. “Posto curioso. Malinconico ma non privo di una sua bellezza. Una pianura senza fine, con appena un leggero rigonfiamenti del terreno, come un oceano percorso da onda dopo onda, a perdita d’occhio. E tutto in grigio, grigio senza vita, fino a dove questo mare senza vita incontra l’orizzonte. Mentre le nuvole si rincorrono nel cielo grigio, spinte dal vento…”, annota nel suo diario il rappresentante dell’Austria-Ungheria, il conte Czernin. Le delegazioni avevano persino festeggiato il Natale insieme, con scambi di doni e di canti, gli uni addobbando un albero, gli altri facendo arrivare un barile di caviale.

 
La Germania era rappresentata dal generale Hoffman e dal segretario di stato Richard von Kühlmann. La Turchia (alleata degli imperi centrali) da Talat Pascià. La Russia da Joffe e Trockij. Quasi tutti avrebbero fatto una brutta fine. Talat Pascià, il principale responsabile del genocidio degli armeni, sarebbe stato processato in Turchia, condannato e poi lasciato scappare, finché fu ucciso a Berlino da un giovane armeno, Soghomon Tehilirian (che finì i suoi giorni rifugiato in America). Joffe avrebbe poi firmato altre paci a nome del governo sovietico. Ma poi finì i suoi giorni suicida, prima che a farlo fuori fosse la Nkvd di Stalin. Trockij fu raggiunto in Messico dai sicari poco prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale. Di loro Stalin cancellò persino la memoria.
Potete trovare tutto quello che avete sempre voluto sapere sulla Pace di Brest-Litovsk, e non avete mai osato chiedere, anzi anche qualcosa di più, in Twilight of Empire: The Brest-Litovsk Conference and the Remaking of East-Central Europe, 1917-1918 di Borislav Chernev (University of Toronto Press 2017). Analogie e dissonanze con l’attualità le tirerà il lettore. E’ evidente che ci vorrà una trattativa perché finisca. E che dobbiamo incrociare le dita perché il dopo non sia come il dopo Brest-Litovsk.