La malinconia, da segno distintivo delle élite a fenomeno di massa
Aristotele sosteneva che tutti gli individui eccezionali hanno un temperamento malinconico. Ma mentre quest'ultimo alimenta l’arte, nel frattempo avvelena pure la società incapace di sopportarlo
Il termine “malinconia” deriva dal greco melancholía, composto da mélas (nero) e cholé (bile). Letteralmente, quindi, malinconia significa “bile nera”. Secondo le teorie della medicina dell’antica Grecia divulgate dalla scuola di Ippocrate, i caratteri e i conseguenti comportamenti umani sono determinati dalla combinazione dei quattro umori-base: bile nera, bile gialla, flegma e sangue (umore rosso). Pertanto, la malinconia indica quello stato d’animo che deriva da un misto di tristezza, inquietudine, malumore, tedio, ùggia. Le forme più arcaiche, melanconia e melancolia, in disuso nel linguaggio corrente, sono utilizzate in letteratura o in medicina per indicare lo stato patologico molto vicino a quello che oggi identifichiamo col termine depressione.
Aristotele sosteneva che tutti gli individui eccezionali – nell’attività filosofica o politica, artistica o letteraria – hanno un temperamento malinconico. Ma lo Stagirita non è certo responsabile della leggenda metropolitana, assai diffusa in certi ambienti tra il bohémien e il nevrotico, secondo cui per essere “geniali” è necessario essere depressi. Una cattiva letteratura ha contribuito a coltivare questo equivoco. Da qui nasce il mito della depressione come tratto distintivo delle élite culturali e dei ceti borghesi più elevati, mentre gli odierni studi epidemiologici dimostrano che essa colpisce tutte le classi sociali. In tale confusione se ne è persa di vista l’essenza stessa. Fondamentale è allora tenere ferma la distinzione tra temperamento malinconico e depressione. Quest’ultima è una sofferenza angosciosa e profonda di cui non si immagina la fine, un fitto labirinto di cui il malato non vede né cerca l’uscita. Mentre lo schizofrenico non ha consapevolezza della malattia, il depresso cronico non ha fiducia nella terapia. Nulla può cambiare. Niente può aiutare. La depressione vera, per usare un’immagine efficace del neurologo Paolo Berruti, è come un mare senza luci, senza orizzonti, senza spiagge (psicofarmaci e psicoterapia non sempre fanno miracoli). Quella speranza che oggi fortunatamente sorride persino a chi è affetto da un tumore, al depresso è negata. E’ dunque evidente che in presenza di una vera depressione non esiste nessuna possibilità creativa.
Lo aveva già intuito Albrecht Dürer, forse l’unico artista tedesco veramente rinascimentale, in una celebre opera-simbolo: “Melencolia I”. E’ un bulino, cioè una stampa ottenuta con una punta di acciaio capace di incidere la lastra di rame – poi inchiostrata – con un segno molto netto ed eloquente. Un’opera complessa, evidentemente pensata a lungo, che ha diverse chiavi di lettura. La figura solenne, ali semichiuse e sguardo nel vuoto, seduta su un gradino di pietra, con la testa sorretta da un braccio puntellato dal ginocchio, raffigura egregiamente l’inerzia del ripiegamento tipica del depresso. E’ un’immagine femminile, che allude alla prevalenza della depressione nelle donne. Anche il cane, amico fedele, giace immoto e raggomitolato in se stesso. Soltanto un piccolo genio alato appare attivo e scrive, quasi a testimoniare un briciolo di vitalità non del tutto perduto. Gli strumenti di lavoro abbandonati per terra stanno a indicarne la mancanza di significato e di uso, in questa situazione di luce spettrale, in cui la vita è come immobile e cristallizzata. In un cielo scuro, su un mare che immaginiamo gelido e fermo, la parola Melencolia è portata in volo da un pipistrello, animale ambiguo che teme la luce, dotato di ali iconograficamente simili a quelle del diavolo, angelo caduto. Questa è l’opera dell’incapacità di trovare un aggancio con la vita, e tutto è abbandono. L’essenza della depressione è qui splendidamente colta. Anche la presenza dell’arcobaleno sta a significare, con la luce vivida della cometa, la speranza o il riemergere della vitalità. E’ il “ritorno alla luce”. E questo ci dice che qui vediamo rappresentato, con sommo ingegno, il temperamento malinconico e non la depressione cronica, che in fase acuta nulla spera.
L’incisione del pittore di Norimberga è del 1514, mentre nel 1621 Robert Burton pubblica The Anatomy of Melancholy, una specie di enciclopedia delle sue cause e dei suoi sintomi, come delle diagnosi e delle terapie proposte fin dall’antichità. Il bibliotecario di Oxford si mostra relativamente compiacente nei confronti dei melanconici, che per lui sono più perspicaci, giudiziosi e ricchi di spirito dell’uomo comune. Qualità che però li rendono più fragili di fronte alle “guerre, pestilenze, incendi, furti, assassini, massacri, battaglie e così via, frutto di questi tempi burrascosi”. Dinanzi a queste catastrofi, come non vedere “che il mondo intero è folle, malinconico, sta vaneggiando?”.
Come per Shakespeare, che Burton conosce bene, anche per lui il mondo è una “gabbia di pazzi” che guidano i ciechi. E, se il mondo un palcoscenico di folli, la soluzione è il suicidio o non essere mai nati? Shakespeare passa in rassegna i motivi che possono spingere a farla finita – amore, gloria, rimorso, rovina, disperazione. Il duca di Gloucester in Re Lear, vecchio, orbo, disilluso, si fa guidare dal figlio, che si finge insano di mente, alle scogliere di Dover, per poi gettarsi nel vuoto. Ma l’altura da cui si getta è una collinetta, così non subisce alcun danno. Una scena farsesca, che ben rappresenta il nichilismo moderno: “Tutto è vuoto, compreso il cielo; tutto è illusione, comprese la vita e la morte”. “In questa vita – aggiunge Burton – sono numerosi i flagelli che possono abbattersi su un mortale: matrimonio, bambini, domestici, maestri, compagni, vicini, i nostri difetti, l’ignoranza, gli errori, le infermità”. Tuttavia non se la sente di uscire da quella prigione, anche quand’anche gli si apra la porta di cui peraltro ha le chiavi: la morte lo solleverebbe, ma egli la rifiuta. Riflettendo su questa misteriosa contraddizione, Burton arriva alla domanda di sempre sulla condizione umana: “Sono scontento. Perché allora desidero tanto vivere?” (L’anatomia della malinconia, Marsilio, 2003).
Dürer e Burton sono le due pietre miliari – sostiene Georges Minois – tra cui si colloca il secolo della malinconia, che è anche il secolo del Rinascimento, dell’Umanesimo e della Riforma protestante (Storia del mal di vivere. Dalla malinconia alla depressione, Dedalo, marzo 2022). La nascita dello spirito moderno – osserva lo storico francese – non poteva che essere “malinconica”. Dopo i viaggi di Cristoforo Colombo il pianeta è diventato più grande; da Copernico in poi l’universo appare sempre più immenso (Giordano Bruno azzarda persino che sia infinito); con Lutero Dio sembra allontanarsi: niente più icone, niente più intercessori né indulgenze. L’umanista è un solitario, rinchiuso nel suo studio fra libri e mappe astronomiche, teme la censura delle autorità religiose. A Francoforte sul Meno, lo stampatore luterano Johann Spies pubblica nel 1587 la Storia del Dottor Faust, più tardi immortalata a teatro dal drammaturgo inglese Christopher Marlowe in una magnifica tragedia. L’anonimo autore racconta il patto con il diavolo stretto da un avventuriero dissoluto, mago e ciarlatano, mosso da una sete di sapienza assoluta – chiamata “furore malinconico” – che lo conduce alla disperazione quando comprende che essa è impossibile da raggiungere.
Per altro verso, con il capitalismo nascente iniziano a incrinarsi strutture tradizionali dell’Antico regime come le corporazioni e gli obblighi comunitari. L’individualismo si afferma nel campo degli affari e, con esso, la moda della malinconia dilaga in tutta Europa. Nonostante sia considerata una malattia, viene stimata come un privilegio di cui godono le persone eccezionalmente dotate. Non c’è perciò esponente dell’alta aristocrazia o ricco borghese che non voglia farsi ritrarre per fermare gli irreparabili “oltraggi” del tempo, per trasmettere la sua memoria alle generazioni future. Lo stesso vale per l’autobiografia, un genere letterario inaugurato nel 1542 dal matematico Gerolamo Cardano, morto suicida. Perfino i Saggi di Montaigne (1588), in qualche misura, appartengono a questo filone. Come ha sottolineato il critico letterario (e psichiatra) svizzero Jean Starobinski, “La riprovazione di Pascal [rispetto alle confessioni di Montaigne], mi sembra, non si rivolge solo a un atto d’orgoglio ma, più profondamente, al peccato di disperazione commesso da Montaigne quando, invece di rispondere alla morte con un atto di fede nella promessa divina, ricorre alla letteratura, all’arte, per tracciare un’immagine della sua vita da affidare alla posterità” (Montaigne: il paradosso dell’apparenza, il Mulino, 1984).
Nelle pagine conclusive della sua monumentale ricerca, di cui qui si è dato conto solo di una piccola parte, Minois cita una celebre frase di Dostoevskij: “I veri grandi uomini devono provare una tristezza immensa sulla terra”. Ma la tristezza a cui si riferisce il romanziere russo, dagli illuministi a Schopenhauer e Kierkegaard, dalla malinconia romantica allo “spleen” di Baudelaire fino al nichilismo di Nietzsche, resta una questione elitaria. Solo il Novecento la “democratizza”, paradossalmente anche grazie ai suoi orrori. Lo testimonia un saggio di Ernst Bloch pubblicato a Zurigo nel 1935, Eredità del nostro tempo. E’ una magistrale analisi del crollo della Repubblica di Weimar e dell’avvento del nazismo. La sua introduzione si intitola “Polvere”. La metafora centrale del libro è infatti la polvere, che la piccola borghesia in rovina solleva nell’aria e che si diffonde rapidamente in tutto il Reich. Potenze della polvere sono la rabbia e la paura, le due categorie interpretative di cui si serve il filosofo tedesco per esaminare l’ascesa di Hitler. Sotto la scura polvere che si alza in un’atmosfera cupa e minacciosa, non c’è una via d’uscita. Il finale, quindi, è già scritto. Mentre l’operaio senza lavoro non guardava più a Mosca, l’impiegato disoccupato si affidava al Führer. In Europa, nei primi decenni del Novecento, la rabbia e la paura dei ceti medi impoveriti furono catturati e addomesticati da regimi totalitari. Nella seconda metà del secolo scorso, invece, la rabbia e la paura di una classe media in declino e di ceti popolari impoveriti hanno trovato uno sbocco politico nei movimenti populisti.
Nelle sacre rappresentazioni dei loro leader, gli abiti di Satana sono identici. Possono essere, a seconda delle circostanze, lo stato dei padroni, la casta dei politicanti, la grande finanza, il complesso militare-industriale, i poteri forti, la massoneria, gli incontri annuali di Bilderberg o quelli della Trilaterale. Nulla di sorprendente, perché il populismo non è un’ideologia, ma una sindrome basata su due radicate convinzioni: che il popolo sia depositario della verità e che sia, insieme, vittima di raggiri, inganni, persecuzioni. In questo senso, si può ben dire che il populismo è una religione neopagana in cui il Popolo è Dio, un Dio che adora se stesso. Sul fuoco del populismo, poi, soffia la Rete , vale a dire il maggior simbolo della modernità. Grazie al web si costruiscono crociate contro i signori della Terra, che tessono incessantemente i loro complotti per meglio dominare il mondo degli umili, dei deboli, dei servi della gleba. Mancano le prove e i documenti, ma che importa? La loro assenza, per questi seguaci a loro insaputa dell’esoterismo di Madame Blavatsky, è la migliore conferma che il Male agisce di nascosto.
Prima la pandemia, poi la guerra in Ucraina: il terzo decennio del terzo millennio non è iniziato sotto i migliori auspici, per usare un eufemismo. E ne stiamo pagando lo scotto nel discorso pubblico. “El sueño de la razón produce monstruos” (Il sonno della ragione produce mostri), come recita il titolo dell’acquaforte di Francisco Goya. E’ così. Dietro al successo dell’astrologia, dello spiritismo, del cospirazionismo, del complottismo, delle più strampalate teorie scientifiche, si scorge la tendenza ad alienare una libertà considerata troppo pesante e generatrice di angoscia. Ci si aggrappa così a certezze irrazionali, che consentono di attribuire la responsabilità di ciò che accade a potenze oscure. Da qui quel malessere che un tempo solo le élite culturali conoscevano, e che oggi è un fenomeno di massa. Il libro di Minois è apparso per la prima volta in Francia nel 2003. Già allora egli si chiedeva se non fossimo di fronte “a una sorta di bivio […] fra l’idiozia e la depressione, fra un avvenire di imbecilli felici o di intellettuali depressi”. Sia quindi benvenuta la sua ristampa in italiano. Perché nel nostro paese, vent’anni dopo, quel dilemma non è stato ancora sciolto.