“Metamorfosi” di Emanuele Coccia, quasi un antidoto alla complessità

Giulio Silvano

Il visiting professor di Harvard è capace di prendere argomenti (considerati) banali e renderli eccezionali

Incredibile che la fama mainstream di Kafka sia basata quasi esclusivamente sul racconto La metamorfosi, soprattutto se consideriamo la grandezza irripetibile di un libro come Il processo. Eppure, a pensarci bene, non è così strano, perché l’immagine della trasformazione, del mutamento in un altro essere – in questo caso in un insetto che non riesce ad alzarsi da letto – risveglia subito un profondo interesse comune che ha radici lontane. L’opera in versi di Ovidio, testo cardine che va dalla creazione del Cosmo all’epoca augustea, inizia infatti così: “L’animo mi spinge a cantare le forme mutate in nuovi corpi”, come se la mitologia occidentale fosse una grande storia di trasformazioni. E si resta in effetti, anche solo a memoria ginnasiale, sempre affascinati da quei miti dove vediamo un uomo mutato in bestia, per rabbia o per vendetta di qualche divinità. Aracne che diventa ragno, a Rodope ed Emo che diventano montagne, Narciso che viene tramutato in fiore, i compagni di viaggio di Ulisse in maiali, e poi – hot topic della nostra epoca dell’autoidentificazione – mutamento non da una specie a un’altra ma d’identità sessuale, come Tiresia e Mnesto, Coronide e Proteo. Le trasformazioni rappresentano “una rottura, un evento inatteso e saliente rispetto a vicende di vita ordinaria”, scrive il filologo Guido Paduano nell’introduzione di una nuova edizione delle Metamorfosi, in uscita per i Millenni Einaudi in due volumi (un piacere al tatto e alla vista, con inserite riproduzioni di diverse opere d’arte con scene mitologiche). E sempre per Einaudi, per Stile Libero, esce negli stessi giorni un altro libro intitolato Metamorfosi, di Emanuele Coccia. Leggendolo capiamo ulteriormente l’attaccamento comune per l’immagine della blatta di kafkesca memoria: noi tutti siamo corpi in mutamento, e “la nostra vita è cominciata con un atto di metamorfosi della vita altrui”, e la Terra su cui viviamo “è la metamorfosi della stessa nebulosa di materia da cui sono formati il Sole e gli altri pianeti”.


Coccia, che insegna alla EHESS di Parigi e al momento è in visiting ad Harvard, è capace di prendere argomenti (considerati) banali e renderli eccezionali, disaminandone le dinamiche e producendo frasi assertive che hanno quasi un sapore lirico. E’ un po’ quello che facevano i filosofi una volta. L’ha già mostrato in passato su temi come gli oggetti e la pubblicità ne Il bene nelle cose, con le piante in Vita delle piante (che gli ha dato una certa fama), poi con la casa in Filosofia della casa, e adesso con la vita tout court in “Metamorfosi”. Nel sottotitolo, “Siamo un’unica, sola vita”, c’è l’essenza del suo messaggio, della sua visione. Tutto cambia, costantemente, tutto si modifica, ma va bene così sicché è sempre stato così, e c’è poco da fare. Quello che noi possiamo fare è saperlo, accettarlo, anzi, gioire, vedere nella continua modifica dell’esistente un’eternità e una meraviglia – “portiamo in noi l’infanzia dell’universo”, scrive. Coccia potrebbe sembrare il vessillo dell’appropriazione accademica, un po’ pop, di quello che i boomer chiamavano “New Age”, un anti-Byung-Chul Han marchigiano, confortante e ottimista. E’ l’opposto di Orsini quando dice che “è tutto più complesso di così”. Attraversando la complessità, passando per Hanna Arendt e Gilles Clément, intelligenza animale e Antico testamento, Coccia mostra quanto tutto sia in realtà più semplice: “Noi siamo il mondo come soggetto e come immagine”. “We are the world, we are the children, we are the ones who make a brighter day”, eccetera eccetera.

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