Bannon e Dugin, i Bouvard e Pécuchet del tradizionalismo populista
Solo l’italia, invece di preoccuparsi dell'escalation militare in Ucraina, prende sul serio l'Armageddon leninista-evoliano dell'americano e del russo
Noi ci preoccupiamo giustamente dell’escalation militare in Ucraina, ma intanto l’unica deterrenza che è saltata, per la defezione strategica dei nostri talk-show, è quella che ci proteggeva dal lancio di minchiate atomiche provenienti dall’Est e dall’Ovest. Da occidente Steve Bannon, invitato al bar di guerre stellari di Corrado Formigli, perora su La7 la causa della distruzione dell’Europa tra i pensosi cenni d’assenso di alcuni insospettabili avventori. Da oriente Aleksandr Dugin, scortato da quel suo paggetto azzimato della Verità, si esibisce come guest star nel ritrovo dei retequattristi punk di Mario Giordano – un postaccio da cui sarebbe scappato a gambe levate perfino Limonov sotto droghe – e annuncia la guerra finale contro l’Anticristo e contro il satanismo incarnato nell’ebreo Zelensky. La tv italiana, sempre più indistinguibile a occhio nudo da quella russa formata nell’era Surkov, ha accolto amorevolmente sotto la sua ala i Bouvard e Pécuchet del tradizionalismo populista. A differenza dei dilettanti monumentali di Flaubert, simpatici e tutto sommato innocui, il russo e l’americano non si sono seduti simultaneamente sulla stessa panchina di Parigi, ma questo non vuol dire che il loro incontro non sia stato accompagnato da quella forma scherzosa del destino che si esprime nelle coincidenze; nella fattispecie, nella coincidenza degli opposti. Anzi, degli opposti estremismi.
Bannon, che in qualche occasione pubblica si descrisse come un leninista, votato come Lenin alla distruzione di tutto ciò che è, era stato iniziato dal suo mentore Jacob Needleman – curatore, negli anni Settanta, dell’influente antologia di scritti tradizionali The Sword of Gnosis – alla filosofia di Julius Evola. Dugin, dal canto suo, si era imbattuto negli scritti di Evola alla Biblioteca di Stato russa V.I. Lenin, la famosa Leninka, dov’erano finiti chissà come, e aveva abbracciato simultaneamente leninismo e fascismo perché, a suo dire, “tutto ciò che è antiliberale è buono”. I due si sarebbero poi incontrati nel 2018 nella loro patria elettiva, l’Italia appena travolta dalla marea gialloverde, all’Hotel de Russie di Roma, a pochi minuti di cammino da casa Evola. “Lei e io siamo venuti dal nulla, signor Bannon”, pare gli abbia detto Dugin in quell’occasione. Bannon assentì, e completò la frase: “Eppure entrambi abbiamo trovato la nostra via verso il nulla. La Tradizione”. Il dialogo, riferito da Bannon a Benjamin R. Teitelbaum in War for Eternity (Penguin, 2020), merita forse un chiarimento. Eredi anche in questo di Bouvard e Pécuchet, gli autodidatti Bannon e Dugin si sono dedicati per anni a quella forma postmoderna dell’enciclopedismo pasticcione che è la pratica del riciclaggio culturale e del bric-à-brac sincretista.
Bannon, sotto le vesti ingannevoli del tipico populista americano anti-establishment e del jacksoniano ruspante (qualche liberale italiano, nemmeno a dirlo, c’è cascato), insacca alla rinfusa un po’ di tutto, nozioni orecchiate a destra e a manca, ed è perfino capace di trovare analogie tra il Kali Yuga, l’età oscura che prelude a una nuova età dell’oro, e la “distruzione creativa” di Schumpeter. Puro cabaret. Non ama l’ideale gerarchico fisso del pensiero tradizionalista, crede nella mobilità spirituale, e pensa che nel popolo dei “deplorevoli” ci sia un germe intatto, non corrotto dalla modernità, dall’illuminismo e dal materialismo: lì si annida la primizia di una nuova stirpe di sacerdoti.
La cialtroneria di Dugin è rivestita da un patchwork più dotto. Come ogni bravo evangelizzatore, Dugin ha studiato la religione dei pagani occidentali che intende convertire; così affida la pars destruens dei suoi proclami alla filosofia postmoderna e all’antropologia postcoloniale, cita Lyotard e Derrida, Foucault e Said per minare dall’interno l’idea universalistica di verità e poi marciare sulle macerie sotto le insegne dell’etno-verità dell’anima russa. Quanto al Kali Yuga, lo ha associato – anche questo un bel guizzo cabarettistico, non c’è che dire – alla modernità liquida di Bauman. E allora, in che senso l’adesione alla Tradizione guénoniano-evoliana di questi “spostati” venuti dal nulla è allo stesso tempo una “via verso il nulla”?
Lo hanno spiegato, ognuno a suo modo, in più di una occasione: si tratta di disseminare attivamente il caos, di aggravare i sintomi del nichilismo per accelerare l’attraversamento del Kali Yuga e propiziare l’avvento di un nuovo ciclo storico. E la distruzione della ragione, della verità, dell’umanesimo moderno e dell’ordine liberale si ottiene prima di tutto per vie che il gramscismo di destra chiama “metapolitiche”: conquistando l’egemonia nel campo della cultura e dell’informazione, vincendo la battaglia per le anime dei contemporanei.
Nel nostro territorio di conquista, gli avventurieri hanno trovato terreno fertilissimo per la loro semina del caos, anzi: l’Italia è l’unico paese che li prende sul serio, dopo che anche i rispettivi prìncipi, Trump e Putin, li hanno messi da canto come pittoreschi maghi di corte. Dall’etere italiano possono continuare la battaglia epocale, l’Armageddon leninista-evoliano, il cui primo obiettivo, ieri come oggi, è la distruzione dell’Europa. La guerra in Ucraina offre un’occasione ghiotta. “L’Europa era come un gioco da tavolo, Dugin giocava da oriente, Bannon da occidente, anche se raramente si fronteggiavano come avversari”, ha osservato Teitelbaum nel suo libro prezioso. E qui possiamo abbandonare senza rimpianti Bouvard e Pécuchet e suggerire un paragone più appropriato, sfruttando un’altra buffa coincidenza.
Negli anni Novanta, quando aveva fondato una sua banca d’investimenti, la Bannon & co., specializzata nell’acquisizione di prodotti di Hollywood, Steve Bannon era riuscito ad aggiudicarsi i diritti parziali su un certo numero di episodi della popolarissima sitcom Seinfeld. Mi piace immaginare che tra questi ci fosse un episodio del 1995, The Label Maker, in cui due perdigiorno si sfidano in una tragicomica partita a Risiko dove il dominio del mondo passa, tu guarda un po’, per la conquista dell’Ucraina. Nella sitcom un fierissimo signore ucraino, offeso dall’insolenza di questi due balordi che si fanno beffe della sua nazione, manda all’aria la plancia del gioco con tutti i carrarmatini di plastica. Speriamo che qualcosa di simile accada anche nella realtà.