(foto di Wikimedia Commons)

Ennio Flaiano, il Marziano che ci manca

Michele Masneri e Andrea Minuz

Moriva nel 1972. Minoritario, scanzonato, antifascista e anticomunista, è stato soprattutto un “antinotabile”. Il Mondo, la “Dolce Vita”, gli aforismi e l’unico romanzo: dopo cinquant’anni, un mistero

Difficile immaginarselo nell’epoca dei podcast, dei book festival, dello scrittore in promozione permanente su Instagram, o in collegamento televisivo, con le copertine dei suoi saggi bene in vista nella libreria alle spalle. Ma nell’affollamento di centenari in corso, su cui svettano i festeggiamenti per l’anno pasoliniano, appartato in angolo, come al suo solito, c’è anche l’anniversario della morte di Flaiano (1910-1972). Dissipatore di talento, inattuale, irregolare, fuori moda, citato spesso a caso e chiamato in causa per i suoi aforismi e jeux de mots, Flaiano resta ancora oggi, tutto sommato, un gran mistero.

 

Michele Masneri: “Bisogna guardarsi dalla  Flaianite”, metteva in guardia già vent’anni fa Giovannino Russo. L’idea di blindare Flaiano ai suoi miti o modi di dire ormai patrimonio dell’umanità (il marziano, la situazione grave ma non seria). “Flaianesco”, a un certo punto, fu quasi comune come “felliniano” (e lì, altro luogo comune, altro aneddoto celebre: lo sceneggiatore di “Otto e mezzo” che va a ricevere gli Oscar a Los Angeles col regista, ma uno va in business e l’altro in economica. Non si parleranno mai più). 

 

Andrea Minuz: Un episodio leggendario che ha trasformato Flaiano nel patrono d’ogni sceneggiatore frustrato. Un incidente che però è il culmine di un rapporto subito complicato, già dopo “I Vitelloni”, film che è  “di” Flaiano quanto di Fellini. Ma Fellini, si sa, si prendeva tutto. “Per lui sono come una Coca-Cola”, diceva Flaiano, “Fellini mi infila una cannuccia dentro e aspira tutto”.

 

MM: “Flaiano che era fegatoso”, raccontava Suso Cecchi D’Amico, “quando leggeva sui giornali di Fellini che pretendeva di improvvisare ci stava male, perché sapeva che invece dietro c’era una sceneggiatura grossa così”.

 

AM: Ma quelli sono gli anni del mito del regista-autore-Dio. Lì prende piede l’idea che “La dolce vita” è di Fellini come “Guerra e Pace” è di Tolstoj. Oggi anche gli autori dei monologhi di Sanremo rivendicano uno stile, una poetica, una firma. All’epoca scrivevi i film di Fellini e nessuno sapeva chi eri.

 

MM: C’è, nel “Diario notturno”, una gag su Manzoni che si presenta come sceneggiatore da un regista, il quale gli dice: la peste no,  all’estero non piacerà, le rivolte per il pane? Servono proprio? Costano troppo con tutte quelle comparse. Inutile insistere poi su don Abbondio. Puntare tutto sulla monaca di Monza!

 

AM: “Ogni epoca ha le sue passioni, a noi è toccato il cinema”, diceva Flaiano. E un po’ lo rassicurava il fatto che i film non si fanno per i posteri ma, almeno all’epoca, per un industriale che tirava fuori i soldi e uno spettatore che poi li dimenticava in fretta. Non è vero però che si buttò sulla sceneggiatura soltanto perché si guadagnava di più (che resta un motivo nobilissimo). Ma anche perché c’era, nella scrittura per il cinema, quel tanto di provvisorio che lo affascinava. Semmai si può dire che con le sue sessanta sceneggiature e oltre, Flaiano al cinema italiano ha dato più di quel che ha ricevuto.

 

MM: Alternandolo alla sua produzione scritta, in gran parte postuma. Re del frammento, della noterella, del soggetto, dell’articolo di giornale che può diventare sceneggiatura che può diventare romanzo (mentre oggi, ognuno con la sua specializzazione certificata Doc e Dopcg). Flaiano è stato anche il protagonista di una controstoria della letteratura ufficiale, quella che usciva dall’accademia ma sconfinava nei giornali, nel cinema, nel teatro. Un “grande romanzo italiano” scevro da urgenze, necessità, ideologie. Minoritario. Più anglosassone che italiano.

 

AM: Swift, Orwell, Bernard de Mandeville, se fossero nati a Pescara.

 

MM: E poi largo uso del diario, dell’appunto, della misura breve. Una commistione continua tra cinema e cronaca: scriveva sul Corriere, piccole note di costume (“scrivere d’altro era l’unico modo permesso di scrivere durante il fascismo”); fu poi caporedattore al leggendario Mondo, diretto da Pannunzio. Erano nati lo stesso giorno e lo stesso anno, ma Pannunzio due ore prima, “ecco perché sarà sempre direttore”, diceva. Infatti Flaiano era un caporedattore malgré soi. Indipendente, individualista, anarchico, restio al “lavoro in team”, come si direbbe oggi. Dalle 19 in poi però il Mondo diventava una specie di club, dove passavano “tutti”. Tutti discepoli di Longanesi, l’inventore di “Omnibus”, colui anche che gli impone di scrivere “Tempo di uccidere”, il suo primo e unico romanzo con cui Flaiano vince lo Strega, basato sulla sua esperienza nella delirante guerra d’Etiopia. E anche lì, poca “urgenza”, ma un solido anticipo.

E non che Flaiano sia uno scrittore sciatto, tutt’altro. Il suo faro è Gadda. Gli piace Bellow. Ossessione per lo stile, per come utilizzare questa lingua “ridicola, inventata”; l’italiano che è “un’eterna lotta contro le preposizioni articolate”, citando Longanesi. Che ritorna: “La parola di Longanesi, quel suo fare sbrigativo con cui sapeva mettere l’arte sul piano degli affari e viceversa, mi aveva ormai impegnato a un duro lavoro di esemplificazione delle mie idee, che probabilmente non sapevo fare”. “Non volevo assolutamente diventare scrittore”, dirà Flaiano in un’intervista alla radio della Svizzera italiana. “Volevo fare qualcosa in cui utilizzare le mani e la fantasia”. Al Mondo, fa anche un po’ il grafico. Ha studiato architettura. E del resto la grande invenzione di Pannunzio furono le foto giganti, slegate dal contesto, e girava con una cordicella al collo, per misurarle. Artigiani-intellettuali. Come Saul Steinberg, altro artista nato dai giornali umoristici, amico di Zavattini e Lattuada (altro architetto mancato).

 

AM: Quanto Flaiano anche nei luoghi della sua vita! Un arabesco improbabile di litorali desolati e fughe nelle metropoli cosmopolite o approdi in città mediorientali, ma “senza un quartiere europeo”. Pescara, anzitutto, che con grande sense of humor il nostro condivide con l’Immaginifico. Una provincia da cui partono due linee opposte della letteratura nazionale, quella  scettico-razionale (minoritaria) e quella megalomane-narcisistica del Vate, assai più frequentata. Anche nelle review su Tripadvisor il confronto  è impietoso (“la casa di Flaiano è in corso Manthonè, molto semplice, in mattoni, con targa commemorativa e nulla più, ma poco distante c’è quella più nota di D’Annunzio”). Poi l’arrivo a Roma, naturalmente, come un eroe balzachiano che insegue la gloria nel tumulto della grande città e presto scopre l’amara verità (“si viene a Roma in cerca di un lavoro, poi si trova un impiego”).  Ma anche i soggiorni frequenti a New York e Parigi. E la casa a Fregene, a via Jesolo, nel villaggio di Pescatori, che negli anni Cinquanta era “il mare di Cinecittà” e dove dal 2016 c’è un “largo Ennio Flaiano”, con immancabile rotonda. Poi la tomba di famiglia a Maccarese, sempre lì, nella wilderness del litorale, dov’è sepolto insieme a moglie e figlia. Infine Lugano, dove c’è il “fondo Flaiano”: carte, lettere, documenti, appunti per i tanti progetti rimasti incompiuti, chiedendo a chi vuole studiarlo di cimentarsi almeno nella “gita a Chiasso”.

 

MM: Ma una toponomastica flaianesca non può prescindere da via Veneto, “topos” totalmente da lui creato: come si sa la Dolce Vita durò pochi mesi, nel 1958 fatale, in quell’assembramento di tavolini di bar, dove arrivavano “tutti”: Cardarelli che aveva sempre freddo, col cappotto anche d’estate, e poi Moravia, Brancati, Maccari, Ercole Patti, De Feo, Soldati, tra un Martini e un giro alla libreria Rossetti del papà della attuale signora Scalfari, dove Giuseppe Berto ambienterà un celebre incubo letterario nel “Male oscuro” (oggi un “nail studio”). La Dolce Vita nasce dall’osservazione di Flaiano, dalla flânerie, destino obbligato di ogni provinciale creativo a Roma (altro “topos flaianesco).

I “fogli di Via Veneto”, inizialmente usciti sull’Europeo, costituiscono la parte iniziale de “La solitudine del satiro”. Flaiano lì la descrive  come una spiaggia. “Giugno ’58. Sto lavorando con Fellini e Tullio Pinelli a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista. Fellini vuole adeguarla ai tempi che corrono, dare un ritratto di questa società del caffè, chi folleggia tra erotismo, l’alienazione, la noia, l’improvviso benessere (…). Salta agli occhi che questa non è più una strada, ma una spiaggia. I caffè che straripano sui marciapiedi, quanti sono? Sei? Sette? Hanno ognuno un tipo diverso di ombrellone per i loro tavoli, come gli stabilimenti balneari di Ostia: e non sono ombrelloni da strada, ma da festa galante, alcuni hanno nappe e festoni di paglia, come nelle isole Hawaii. Siamo tanto affezionati a quest’idea, che l’abbiamo adattata nell’unico modo accettabile dalla nostra pigrizia, trasformando le strade in località balneari, elaborando uno stile balneare per le abitazioni, per le automobili, per l’abbigliamento, infine per i cittadini che sembrano e intimamente sono soltanto bagnanti”.

 

AM: Oggi via Veneto riparte dal “Crazy Pizza” di Briatore. Pizze alla romana e camerieri-acrobati che cantano in napoletano: “Un brand per rilanciare la dolce vita!”. Pare di stare a Dubai.


 
MM: Ma Roma rimane al centro dell’opera di Flaiano. A partire dal “Marziano”, il suo racconto apparso sul Mondo nel ’54, quando appunto un’astronave atterra a Roma e tutti corteggiano il suo proprietario, l’extraterrestre che diviene beniamino dei paparazzi, dei salotti, delle anteprime, salvo poi dopo un po’ aver stufato tutti…

 

AM: Sbagliato però ridurre il “Marziano” a una parabola sul cinismo, l’inerzia, il disincanto, l’assenza di stupore di Roma e dei romani. Lo spunto è quello, certo. Ma col tempo l’idea del “Marziano” cresce, si dilata a “sistema”. Diventa uno snodo decisivo di tutta l’opera di Flaiano. C’è qui una sua ossessione di fondo: l’idea che in “un mondo che ha sete di cose che stanno accadendo, non di cose accadute”, tutti i fatti con l’abitudine sono privati di senso. Tutto ormai è impastato dall’assuefazione alla cronaca, dalla moltiplicazione infinita delle notizie, dei dati, dei dibattiti, dall’annullamento dei confini tra vero e falso, tragico e grottesco. Il teorema del “Marziano” lo ritrovi anche dentro un film come “Don’t Look Up”. Come recita l’inizio folgorante de “Le ombre bianche”, l’ultimo libro che pubblica nel 1972, “la realtà comincia a superare la satira”. 

 

MM: Anche il narcisismo. In “Diario notturno”, Roma è la città in cui “le signore vogliono diventare scrittrici, le scrittrici vogliono diventare ambasciatori, gli ambasciatori scrivono poesie, i poeti dipingono e i pittori si lamentano di essere in troppi”. Pare oggi.

 

AM: Mancano solo i podcast.

 

MM: A Flaiano poi sarebbe piaciuto tantissimo Orsini, sono sicuro. Una formidabile faccia da commedia all’italiana.

 

AM: Ma anche gli stalinisti nostalgici, richiamati in tv con la guerra in Ucraina. Nel paese che ha avuto il partito comunista più forte dell’occidente, in una cultura satura d’antifascisti ma poco incline all’antitotalitarismo (e che sfodera una saudade per la cara vecchia Urss ancora oggi), Flaiano è stato un salutare, rarissimo modello di intellettuale anticomunista. Si cita spesso il “fascismo degli antifascisti” (ma la frase è di Maccari, non sua) o il formidabile, “non sono comunista perché non posso permettermelo”. Ma il suo capolavoro è “L’uovo di Marx”, pubblicato sul Mondo, il giorno di Natale del 1956, poco prima dell’invasione di Praga. L’unico modo per contrastare l’egemonia culturale del marxismo nella cultura, nel giornalismo, nelle università, dice Flaiano, è imporlo come materia obbligatoria nelle scuole medie: “Niente diplomi, niente licenze, niente lauree, se non si supera l’esame di comunismo”.

Diceva Carlo Laurenzi, giornalista, scrittore, vecchio amico di Flaiano: “Nella traduzione inglese credo che ‘L’uovo di Marx’ avrebbe spopolato, perché ha la stessa forza eversiva di un Orwell. C’era un filone di sottigliezza britannica sotto l’aspetto, diciamo pure così, meridionale, latino, di Flaiano”. Una mosca bianca nella cultura italiana degli anni Cinquanta. Dove “anticomunista” era un’infamia, una scomunica. Come diceva Vittorio Strada, “esserne colpito significava uscire da tutto: carriere accademiche e parlamentari, dai salotti, dai premi, dalla Tv, dalle terze pagine”. Non come oggi, che più si sta in tv più si diventa vittime del “pensiero unico”, del “maccartismo”, della censura, in una continua autoparodia che avrebbe divertito Flaiano. Più che escluso o boicottato dal campo intellettuale, Flaiano si è invece autoconfinato in un isolamento tattico, da cui osservare meglio l’Italia e gli italiani. Nel necrologio dell’Unità del ’72, insieme all’omaggio di rito, c’è però tutto l’imbarazzo per uno scrittore che non era “uno dei nostri” (“Si abbandonò a un qualunquistico rifiuto del mondo, senza però indagarne le cause… un tipico intellettuale borghese incapace di uscire dalla propria classe”, e così via). Cambiano le parole d’ordine (oggi sarebbe un “maschio bianco privilegiato”), resta intatta la prospettiva dell’“impegno”. E fuori dall’impegno, in Italia si è sempre a rischio.

 

MM: Anticomunista critico e naturalmente antifascista. Refrattario ai conformismi. “Un anti-notabile”, secondo Giovannino Russo. Leggendario il suo pezzo in cui per raccontare il fascismo fa una lunga disamina dei copricapi del Duce: dalla rassicurante tuba borghese degli inizi, alla feluca ministeriale, alla bombetta del periodo mondano, al grottesco fez, all’elmetto di cartone (perché il capoccione ducesco non poteva sopportare pesi, come scrive Anna Longoni nelle “Opere scelte” di Flaiano, Adelphi), al “primo berretto nazista, un berretto rigido, sinistro, filettato di rosso, con nere passamanerie e un’aquila ancor più intollerabile delle altre”. 

 

AM:  Quando i nonni di Orsini vivevano felici!

 

MM: Flaiano aveva pure partecipato, a sua insaputa, alla Marcia su Roma: dodicenne, era su un treno zeppo di squadracce, mentre lui andava a fare il collegio nella capitale. Le squadracce scesero però prima, a Orte. Di lì il suo celebre “O Roma o Orte”. I motti di spirito sono la sua produzione più peculiare. Come il suo amico-maestro Maccari. Enrico Vanzina ha appena pubblicato un omaggio a Flaiano, un “Diario diurno”, journal di piccoli frammenti, alla maniera del maestro. Alla presentazione ha ricordato un racconto in cui Flaiano e Maccari fanno una zingarata alle terme di Saturnia, e si stufano subito, poi vanno in un paesello dove Maccari si finge ministro, uno scherzo che faceva spesso, anche a via Veneto, dove voleva interrompere certi lavori pubblici, ma non ci cascava quasi mai nessuno.

Spesso Maccari faceva i disegni e Flaiano li firmava; qualche “joke” di uno è spesso attribuito all’altro, tanto erano simbiotici. Ma eccone di flaianeschi autentici: in “La solitudine del satiro”: “A che è servita la lezione di Stalin? A niente. C’è già qualcuno che tenta di instaurare il culto della mancanza di personalità”. “Muore Camus, commento di Moravia: era uno scrittore preparato. Ma a che? Evidentemente, alla morte”. “Certi vizi sono più noiosi della virtù. Soltanto per questo la virtù spesso trionfa”. “Leggere è niente; il difficile è dimenticare ciò che si è letto”. “Ha poche idee, ma confuse”. E infine: “ha una tale sfiducia nel futuro che fa i suoi progetti per il passato”.

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