L'apocalisse culturale e la lezione di Ernesto De Martino
Come Atlante, l’uomo sostiene il mondo e deve disciplinare anche la sua fine. Cosa si può imparare dal grande antropologo e filosofo napoletano
Siamo sotto stress da fine del mondo. Un cigno nero dietro l’altro nei cieli tempestosi degli anni Venti. Un virus sconosciuto e due anni sotto scacco per pandemia. Poi l’invasione militare di un paese europeo, che il Cremlino concepisce come conflitto esistenziale e che minaccia di allagarsi e diventare guerra mondiale. Intanto il termometro segna l’implacabile crescita del riscaldamento del pianeta con le sue soglie allarmanti più o meno prossime. Un grande antropologo potrebbe dirci qualcosa sui riti che stiamo celebrando per contenere ed esorcizzare l’angoscia da apocalisse.
Sulla crisi di presenza dell’uomo nel mondo, su come le diverse culture si sono protette dal rischio di non esserci, e su come l’hanno superato culturalmente, ha molto pensato e scritto Ernesto de Martino, grande antropologo e intellettuale inquieto del secolo scorso. In Italia e in Francia si stanno ripubblicando le sue opere. “Solo oggi, credo, possiamo comprenderne la modernità: rileggendolo mi rendo conto di quanto fosse ristretta la percezione che ne avevo vent’anni fa. E questa è, senza retorica, la misura della fertilità di un pensiero”, mi dice Marcello Massenzio, professore di Storia delle religioni e presidente dell’Associazione internazionale Ernesto de Martino. Massenzio ha curato le nuove edizioni dei libri usciti da Einaudi: “La fine del mondo” (2019), “Morte e pianto rituale” (2021) e adesso, ultimo arrivato, “Il mondo magico”.
E’ una riscoperta rimasta nel mondo degli studiosi – leggere De Martino è tutt’altro che semplice – ma serpeggia ovunque: Bollati Boringhieri ha appena riproposto il carteggio “esplosivo” con Cesare Pavese sulla famosa Collana viola di Einaudi, di cui “Il mondo magico” fu il primo esemplare. Carlo Ginzburg ha inserito nel suo “La lettera uccide”, uscito da Adelphi alla fine del 2021, un importante saggio su “La fine del mondo”. Goffredo Fofi ha ripubblicato tre brevi e limpidi scritti demartiniani nella collana che cura da e/o, con il titolo “Oltre Eboli”. E, sempre l’anno scorso, da Luca Sossella è uscito “I passaggi di Ernesto de Martino” di Gian Piero Jacobelli, con una sintetica antologia dall’opera provocatoria ed enigmatica che De Martino stava scrivendo quando morì nel 1965 a soli cinquantasette anni. “La fine del mondo”, il diamante grezzo, l’opera incompiuta pubblicata postuma nel 1977 a cura di Clara Gallini e riproposta da Einaudi più di quarant’anni dopo nell’edizione francese, più leggibile e riorganizzata intorno all’indice originario da Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio.
La chiave per accedere a quest’opera aperta e frammentaria, dedicata all’analisi delle apocalissi culturali e fatta di un profluvio di appunti e schede di lettura, si trova ne “Il mondo magico”, che uscì con clamore nel 1948 e che ora è tornato in libreria. Dunque partiamo da qui. Avevo un debito di conoscenza con Ernesto de Martino e mi sono avventurata. Era un debito contratto da una ventenne affascinata dalle foto scattate da Franco Pinna nelle famose spedizioni degli anni Cinquanta, in Lucania e nel Salento, con le quali De Martino aveva dato un senso alla sopravvivenza di credenze magico-religiose, retaggi di antiche civiltà, sottraendo il meridione contadino alla vecchia idea coloniale di Indias de por acà. Spedizioni etnografiche, multidisciplinari e allora dannatamente innovative, che avevano coinvolto personalità brillanti come Pinna, uno dei fotografi prediletti da Fellini, come lo psichiatra Giovanni Jervis o la giovane antropologa Amalia Signorelli.
Che cosa c’entra il magismo con la fine del mondo e con le apocalissi culturali? De Martino individua nel mondo magico la nascita della consapevolezza dell’umano e così lo immette nella storia. Per lui l’etnologia è storiografia delle civiltà primitive. Le pagine più belle di questo libro sono dedicate al “dramma culturale” della presenza. L’uomo primitivo viveva fuso con la natura, con la terra e con il cielo, con gli animali e le piante. Non sapeva di esserci. Quando individua se stesso, l’uomo si separa e si distingue dal caos del mondo. Acquista la consapevolezza di sé e, col sedimentarsi della memoria, comincia a strutturarsi la cultura. Comportamenti, riti, tradizioni e istituti culturali. Ma l’individuazione, la presenza, non è data una volta per tutte. E’ una conquista fragile, precaria, che può smottare continuamente. Nel mondo magico, lo sciamano interviene per risolvere le crisi e per disciplinarle culturalmente, compie per la comunità riti che comportano la discesa negli abissi del caos e il ritorno, la reintegrazione dell’io. Nel magismo c’è il riscatto della presenza, che è un “bene storico” instabile nella vita delle persone, esposte alla disgregazione di sé nella sofferenza e nel lutto, come in quella delle comunità, che sopportano catastrofi, carestie, guerre. Perdersi è un rischio antropologico in ogni epoca, compresa la nostra.
Nato a Napoli nel 1908, De Martino aveva sofferto di epilessia. Come Dostoevskij. Conosceva emotivamente e biograficamente, non solo da studioso e da antropologo, le possibili umane declinazioni di una crisi di presenza. Basta osservare con cura qualche vecchia foto per percepire, nello sguardo luminoso e “cilestrino”, e nel volto scavato, l’intensità del suo modo di lavorare e di essere. Per “Il mondo magico” entrò in rotta di collisione con Benedetto Croce. Il suo maestro lo recensì due volte. Nel 1948 salutò positivamente l’ingresso dell’etnologia nel campo della “severa storia”, accostando De Martino a Vico. Nel 1949, invece, lo stroncò per aver messo in discussione l’universalità delle categorie di giudizio e per aver rivalutato l’irrazionale, la presenza storica e la funzione degli sciamani. Il mondo aveva appena visto e continuava a vedere all’opera alcuni “sciamani”: Mussolini, Hitler, Stalin.
Nella sua introduzione a questa edizione de “Il mondo magico” Marcello Massenzio chiarisce molto bene che per De Martino il magismo all’alba delle civiltà è cosa ben diversa dai relitti di pensiero magico che si ripresentano continuamente, anche nella storia contemporanea, come rigurgiti di un passato che non passa. Vogliamo evocare fenomeni regressivi come il terrapiattismo, la xenofobia, il rifiuto del pensiero scientifico e la paura dei vaccini? Né si può confondere lo sciamano, “eroe della presenza” nel mondo primitivo, dove rappresenta la comunità nella risoluzione di un dramma culturale, con la tirannia moderna. De Martino avrebbe poi avuto modo di precisarlo. E certo non simpatizzava con gli “sciamani” della Seconda guerra mondiale. Aveva partecipato alla Resistenza in Romagna dove si era rifugiato con moglie e figlie, che erano ebree. Però metteva in discussione l’etnocentrismo e accoglieva il relativismo culturale, questo sì.
Il concetto di realtà non è lo stesso in ogni cultura e, senza uscire dal proprio, non si possono comprendere altri mondi. Uscire per lui era un modo per allargare gli orizzonti dell’umanesimo, restando fedeli alla propria civiltà. Si chiamerà “etnocentrismo critico”: come convivono in De Martino relativismo e fedeltà? “Le civiltà extraeuropee”, dice il professor Massenzio, “sarebbero rimaste incomprensibili senza l’uso di strumenti diversi dai nostri. E non si può capire il magismo senza mettere da parte i criteri svalutativi della nostra cultura, che si è costruita contro quella di tipo magico. Per recuperarla alla storia De Martino compie un’operazione di relativismo culturale. Ma questo non è il fine della ricerca etnologica, che studia i percorsi storici delle diverse civiltà a partire da un fondo comune, il concetto di presenza umana nel mondo: non c’è cultura in cui l’uomo non si contrapponga al mondo esterno. In De Martino, l’apertura e il rapporto dialettico con le altre civiltà sono indispensabili per capire chi siamo noi. Per tornare alla cultura di appartenenza e risvegliare la coscienza storica delle scelte dell’occidente, dove sono tratti fondamentali l’autonomia della persona e il concetto di libertà, che trova nella democrazia la sua espressione politico-sociale. Nel ‘Mondo magico’ possiamo leggere lo sforzo di mettere in discussione i motivi per cui una civiltà può perdere se stessa. Nella storia si aprono continuamente crepe e vie di fuga e il nostro potere di agire si può esplicare solo nella cultura di appartenenza”.
Dunque per De Martino la consapevolezza dell’ethos culturale dell’occidente è centrale. La sua è stata una storia intellettuale (e politica) tormentata. A Napoli aveva studiato storia delle religioni con Adolfo Omodeo, che lo aveva introdotto a Croce e allo storicismo, da cui si era separato per poi tornare. Leggendo i “Quaderni dal carcere” e studiando il folklore dell’Italia meridionale era approdato a Gramsci. Si era confrontato con le teorie etnologiche del suo tempo, con l’esistenzialismo e con la fenomenologia, con le grandi correnti della psichiatria e della psicoanalisi. Nel 1948 aveva ideato con Pavese la famosa collana einaudiana di studi etnologici, psicologici e religiosi, ma poi avevano litigato. Amico di Carlo Levi e Rocco Scotellaro, dopo la guerra era stato segretario della federazione del Partito socialista a Bari; nel 1950 aveva aderito al Pci che non lo amava: Togliatti ironizzò sulle sue “indagini sulla validità conoscitiva della stregoneria”. Dopo il 1956 e la repressione sovietica in Ungheria, De Martino si allontanò dalla militanza politica. Entrò in ruolo all’Università di Cagliari, per insegnare storia delle religioni, solo nel 1959. Un percorso movimentato, da irregolare: Ernesto de Martino ha continuato a pagare la sua inquietudine anche dopo morto? “Per fare un’edizione critica della summa del suo pensiero, che è ‘La fine del mondo’, è stato necessario trasmigrare in Francia”, risponde il professor Massenzio. “Questa possibilità mi è stata offerta solo dall’École d’hautes études di Parigi, grazie al rapporto con Daniel Fabre. E’ lì che, per due anni consecutivi e con l’apporto di colleghi di diverse nazionalità, abbiamo condotto seminari per definire i punti chiave di un pensiero che è molto complesso, e non solo inquieto. Con ‘La fine del mondo’, De Martino ripensa criticamente le radici culturali dell’occidente e affronta la crisi che investe i capisaldi della nostra civiltà. Come vede una questione di grande attualità, se si pensa alla guerra in corso e all’aggressione di Putin all’Ucraina”.
I mondi tramontano continuamente. “La fine del mondo c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai Conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo…”, aveva detto De Martino a Cesare Cases poco prima di morire, mentre lavorava alla sua ultima opera, considerata per lungo tempo un non-libro o un libro fantasma. Con lo studio delle apocalissi culturali, cioè dei sistemi simbolici con cui si rappresentano la fine e l’avvento di un mondo nuovo, De Martino riprendeva il tema delle crisi di presenza che minacciano i singoli e le civiltà. E applicava la sua teoria anche alla storia contemporanea. Ciò che lo preoccupava, a metà del Novecento, era il rischio di un crollo della “patria culturale dell’agire”, e l’approssimarsi di “una nuda e disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile”.
C’era stata la Shoah e poi il fungo di Hiroshima, il rischio radicale del non esserci sembrava possibile e il pensiero contemporaneo gli pareva affacciato sulla perdita di senso e sul nulla. Reagiva al catastrofismo studiando le narrazioni sviluppate nel tempo dalle diverse civiltà: le apocalissi culturali, antiche e moderne, religiose e laiche, compresa l’apocalittica marxista e quella dei movimenti di liberazione dal colonialismo. “Può finire il mondo?”, scriveva De Martino, “chi così chiede e vaga col suo terrore di congettura in congettura, proprio perciò pone il finire del mondo, si immette nel corso del finire che non si trattiene più in nessun nuovo inizio, corre al termine sottraendosi all’unico compito che spetta all’uomo, cioè di essere Atlante, che col suo sforzo sostiene il mondo e sa di sostenerlo”.
Nel clima culturale di quegli anni la crisi di presenza si materializzava come spaesamento, smarrimento dell’orizzonte culturale; in occidente si aggirava lo spettro di un finire senza riscatto, senza nuovo inizio e ritorno alla storia, qualcosa di simile a un crollo psicopatologico. “De Martino”, precisa il professor Massenzio, “distingue le apocalissi plasmate culturalmente, come quella cristiana, che è d’immenso valore simbolico, frutto di un dramma storico, dalle apocalissi psicopatologiche, che sono insorgenze non disciplinate culturalmente. Per lui tutto si costruisce nella storia. Le apocalissi contemporanee, che denotano un senso di disagio della civiltà occidentale senza prospettiva di rigenerazione, un finire senza palingenesi, lo ossessionavano. La civiltà occidentale ha dei limiti e delle ambiguità, può essere criticata, non demonizzata. Nella nostra cultura ci sono i buchi neri e le risorse per ricominciare e andare avanti. E questa ambivalenza va risolta ogni giorno, a ogni risveglio, dal campo psicoanalitico a quello culturale. In un processo senza fine, c’è storia finché c’è questo processo”. Domani è un altro mondo.
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