Quei russi che sono proprio come noi. Ivan Turgenev ce lo ricorda

Matteo Marchesini

Nel gran romanzo dello scrittore, occidentalista, russo si rispecchiano padri d’oggi, sempre più disarmati e protettivi o proiettivi, e figli ogni giorno più fragili e  irreali. Il nichilismo, i vent’anni e le pene di un’ingenuità sprezzante

Oggi che si è in cerca di russi liberali, e che perfino Dostoevskij viene annesso all’imperialismo putiniano, chissà se qualcuno alzerà la bandiera dell’occidentalista Turgenev, detestato e satireggiato dall’autore dei “Demoni”. Nel 2022 compie 160 anni un suo capolavoro che non ha mai smesso di essere attuale, “Padri e figli”


Due studenti, Arkadij Kirsanov ed Evgenij Bazarov, tornano da Pietroburgo alla provincia. E’ un maggio radioso del 1859: siamo a un passo dal decennio di riforme e dalla liberazione dei servi della gleba. Il padre di Arkadij, che accoglie i ragazzi, ha già stabilito rapporti da signorotto illuminato con i suoi contadini; solo che loro, anziché essergli grati, si sono approfittati di quel padrone femminilmente cedevole e incapace di parlare ai sottoposti. Lo nota subito Bazarov, figlio di un modesto medico militare che si sente ancora addosso la terra lavorata dai suoi avi: lui, al contrario, coi servi fa il brusco, e proprio per questo ne è rispettato (Turgenev riassume qui la contraddizione di ogni futura “andata al popolo”). Ma questo giovane scienziato è parco di effusioni anche coi suoi ospiti, Kirsanov senior e suo fratello Pavel, che veste all’inglese e ha un passato avventuroso: in sostanza, li giudica due “vecchi romantici” da compatire. Arkadij, che lo idolatra ma non vorrebbe rinnegare i suoi, prova a mediare. Con parole troppo esaltate per piacere a Evgenij, spiega a padre e zio che il suo amico “è un nichilista”. A differenza dei byroniani e degli hegeliani degli anni ’40, Bazarov crede solo ai manuali, al due più due quattro; e quando non afferma una verità scientifica, la sua lingua si limita ai proverbi. Soprattutto, l’homo novus rifiuta l’intera cultura artistica, compresi i capolavori di Raffaello, perché la considera un mero strumento dell’autorità (vi ricorda qualcosa?) o comunque un’indagine oziosa sugli stati d’animo dei singoli. “Gli uomini sono come gli alberi del bosco” dice, e “nessun botanico starà a occuparsi di ogni betulla separatamente”. 


Evgenij non conosce lo svago: capitalizza ogni passeggiata cercando rane da sezionare, e in camera tiene l’occhio fisso al microscopio. Tutto però cambia quando i due studenti fanno un viaggio nella città vicina. Dopo l’incontro con una bas bleu che sembra la parodia di Bazarov, e che ritiene inutile discutere con chi non conosce l’“embriologia”, i ragazzi incontrano la giovane vedova Anna Sergeevna. “Vedremo a che classe di mammiferi appartiene” sogghigna il nichilista, che concepisce il desiderio per la femmina soltanto sotto l’aspetto fisiologico. Ma poi s’innamora pazzamente di quella donna, che come ha notato Franco Cordelli ha l’intelligenza limpida di Turgenev e anche il suo cuore tiepido, perplesso. Bastano pochi giorni, e lo scienziato diventa addirittura rabbioso: sia perché non vorrebbe provare quel sentimento, sia perché Anna, pur curiosa di lui, non cede alla passione. Allora, come fa spesso quando è in difficoltà, Bazarov esagera la distanza tra il proprio status ‘umile’ e l’aristocrazia della vedova, affrontandola col tono di un piccolo-borghese divorato dal rancore. Ma è peggio: ormai la sua freddezza positivistica è incrinata. Da qui in poi inizia a fare la cosa che più odia: filosofeggia, si abbandona a un patetico cinismo. E così a poco a poco smette di essere un modello per Arkadij, che quasi per contagio si era infatuato di Anna, ma che appena il suo idolo vacilla riconosce il proprio amore autentico per la sorella di lei, la piccola Katja. 


Mentre succede tutto questo, i due studenti continuano a viaggiare; e a un certo punto approdano a casa di Bazarov. Qui Turgenev ci mette di fronte alle origini fragili della sua forza, o forse alle origini forti della sua fragilità, ossia a dei genitori che lo adorano – a una madre che dimentica l’ospite Arkadij per fissarlo come un’innamorata, e a un padre il cui sommo desiderio è essere ricordato come colui che seppe comprendere il valore di un figlio vocato alla celebrità. Da loro Bazarov ritorna alla fine, dopo una nuova sosta da Anna e dai Kirsanov, dove ha tentato di sedurre la giovane compagna del padre di Arkadij e dove ha avuto un duello con Pavel, come lui destinato a rimanere celibe perché incapace d’inserirsi con naturalezza nel ciclo delle generazioni. Nelle ultime pagine, la grande promessa della scienza è ormai un uomo sconfitto, dimagrito e inquieto, che non conosce più la “febbre del lavoro”. Bazarov sembra qui rassegnarsi ad affiancare il padre come “medico di campagna”, professione che prima sbandierava davanti ai nobili soltanto per sfidarli e rivendicare le sue radici popolane; ma nemmeno questo gli è concesso: feritosi durante un’autopsia, si ammala di tifo e muore. 


Questi fatti ci vengono raccontati con una prosa rapida, paratattica, che mantiene un ritmo di allegretto, e che in ogni scena rende con brevi tocchi l’incanto, la fragranza meravigliosa del paesaggio: “un grosso pulcino (…) passeggiava gravemente, picchiando forte con le sue grandi zampe gialle; un gatto sporco, accovacciato leziosamente sopra la balaustrata, gli gettava delle occhiate ostili. Il sole scottava; dall’anticamera semibuia veniva l’odore del pane di segala ancora caldo…”. Tutto sa di rugiada, in “Padri e figli”, tutto è fresco e come appena sorto dal pulviscolo di una luce volubile, impressionistica o quasi fantastica; e su tutto spira come una brezza l’umorismo compassionevole di Turgenev. Dall’inizio alla fine trascorre molto meno tempo di quello che il lettore ha la sensazione di avere attraversato. L’abilità del narratore sta infatti nel raccontare i trapassi impalpabili attraverso cui una stagione decisiva della vita matura e si dissolve: quella dell’ultima adolescenza, del sentimento di onnipotenza di Bazarov e della fascinazione di Arkadij. E’ quasi miracoloso come Turgenev riesca a dire tante cose in sole duecento pagine senza dar mai un senso di stipato, e anzi lasciando sempre circolare l’aria intorno a quei suoi personaggi che, sebbene mai più grandi del vero, hanno la genuinità dei semidèi tolstoiani e le accensioni parossistiche dei mostri di Dostoevskij. 


“Padri e figli” è diventato proverbiale per il tema del nichilismo, riproposto dieci anni dopo nei “Demoni” in un’atmosfera da incubo, priva di luce naturale. Eppure oggi il romanzo ci racconta anche e forse soprattutto qualcos’altro. Ci spiega come la vitalità prorompente e rapace di chi crede di poter rifare da capo il mondo risulti giocoforza proporzionale all’ignoranza che del mondo si ha, e debba fatalmente crollare al primo scontro con le esperienze che si ripetono immutate nella vicenda degli uomini. Bazarov, il cantore della pura praticità, cade nella pratica della vita. Il naturalista viene annientato perché non sa adattarsi ai ritmi della natura, con cui invece Arkadij, in apparenza tanto più debole e però più flessibile, trova un accordo profondo. Lo scienziato s’illude di essere indipendente dal tempo e dai princìpi, di potersi muovere nel vuoto: ma nel vuoto non si può respirare, come gli ribatte Pavel con una frase di cui ci si ricorda all’ultima pagina. E’ questa pura adolescenza, è la sua ingenuità sprezzante e la sua distruzione ciò che Turgenev mette in scena nel modo più struggente. Ma se è vero che Bazarov muore al primo contatto con l’esistenza adulta, è altrettanto vero che durante l’agonia, mentre le sue frasi lapidarie scivolano verso il delirio e rivelano al fondo le speranze perdute, si dimostra all’altezza di quell’età che non ha il tempo di conoscere: “Guardate che orrido spettacolo: un verme schiacciato che si ribella ancora” dice ad Anna che è venuta al suo capezzale. “E dire che pensavo anch’io: farò tante cose, non morirò, macché! ho un mio compito, sono un gigante! E adesso tutto il compito del gigante è di saper morire con dignità, benché questo non importi a nessuno…”. 


Poco dopo, il romanzo si chiude sul vecchio medico militare e sulla moglie che si sostengono a vicenda davanti alla tomba del figlio. Non è un’aggiunta più o meno gratuita, o dal valore semplicemente lirico. Perché è anche la scelta di quel padre e di quella madre a rendere così straziatamente poetica la sorte di Bazarov: è il fatto, cioè, che questo giovane intellettuale dall’intelligenza tagliente e presuntuosa sia cresciuto tra le cure e le ambizioni gloriose di due figure così miti, così disarmate, tutte concentrate su un figlio di cui cercano di anticipare ogni desiderio come amanti insicuri; ed è il fatto che alla fine (forse proprio a causa di quelle cure, di quei sogni gloriosi?) queste figure siano destinate a sopravvivergli. 


“Padri e figli” è anche la storia dell’imbarazzo che gli adolescenti provano davanti a genitori troppo ansiosi, troppo provinciali, troppo arrendevoli o sognanti; e insieme è l’analisi di come proprio su questa base di arrendevolezza e d’illusione sorga la spavalderia eccessiva degli eredi, quel loro groviglio di velleità e astrazioni che non tiene conto della prosa del mondo, della sua ripetitività terribile e dell’antica saggezza dei suoi legami. Ma quando si considera lo sviluppo di questi caratteri, anche senza enfatizzarla con l’orgoglio e la vergogna di Bazarov, non si può non vedere il ruolo che gioca la provenienza sociale. Le velleità e le astrazioni, lo si accennava, possono essere innocue se si è abbastanza flessibili da sostituirle via via con qualche realtà solida. Ma questa flessibilità (la quale non è detto debba coincidere sempre col conformismo) è favorita da un retroterra che come quello di Arkadij non costringe a giocarsi il tutto per tutto per emergere, ossia dall’abitudine a un tranquillo agio e alla forma mentis che ne deriva, perfino quando quell’agio è ormai molto relativo. Dove invece il contesto, e la mentalità, somigliano a quelli che altrove si assocerebbero alla piccola borghesia, le ambizioni tendono a gonfiarsi e a irrigidirsi in miraggi monumentali come in casa Bazarov; e proprio lì, basta poco perché il loro crollo si trascini dietro tutta la vita. Evgenij si muove davvero nel vuoto, o quasi: quando non ha più il suo freddo nichilismo, non può nemmeno tornare alla modesta sapienza paterna; forse anzi non l’ha mai acquisita, questa sapienza, essendosi abituato troppo presto a coltivare un’immagine di sé ‘gigantesca’, e quindi a illudersi di poterne fare a meno. 
Non è questa una storia che ha continuato a ripetersi fino a oggi in molte parti del pianeta, e specie in quell’Europa divenuta nel Novecento il ventre molle dell’Occidente? Noi che veniamo da un lungo dopoguerra in cui sempre meno siamo stati messi a contatto con la realtà prosaica delle cose, e in cui sempre più i genitori, appena usciti dalla servitù contadina, hanno proiettato sui figli i loro sogni di eroismo intellettuale piccolo-borghese, non è proprio su un tale sfondo che comprendiamo immediatamente Bazarov, il Bazarov che siamo stati o che siamo? Non parla forse con la chiarezza di un libro appena scritto, questo classico, al nostro mondo di padri sempre più disarmati, più protettivi o proiettivi, e di figli ogni giorno più fragili, più intimidatori, più sterili e più commoventemente irreali, che il primo imprevisto fa subito precipitare dal loro piedistallo di carta e di bytes?

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