"Auschwitz non finisce mai", un saggio
La memoria per prevenire i nuovi genocidi
Un libro dello storico Nissim racconta la difficile marcia per imporre al mondo la consapevolezza che la responsabilità di prevenire i genocidi è di tutti. Parole, identità nazionali, concetti giuridici
A metà aprile Joe Biden ha gettato la “G word” sul campo di battaglia, accusando in modo esplicito la Russia di genocidio: “Putin cerca di cancellare persino l’idea di essere ucraini. Lasceremo decidere agli avvocati come qualificarlo a livello internazionale, ma di sicuro è quello che sembra a me”. Il riferimento preciso è alla “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio” votata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1948: “L’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”. La prudenza di Emmanuel Macron, che ha invitato Biden a evitare, almeno per ora, un’accusa così impegnativa – e da supportare poi in una sede penale internazionale distinguendola da quella di crimini di guerra, o contro l’umanità, a loro volta definiti – ha irritato innanzitutto Volodymyr Zelensky, per il quale il rifiuto di usare la parola “ci ferisce molto”. Va detto che anche il filosofo Michael Walzer ha invitato alla distinzione dei piani: “Gli attacchi contro i civili, l’uccisione dei prigionieri e delle persone con le mani legate dietro alla schiena, che abbiamo visto nei sobborghi di Kiev, sono crimini di guerra” ha detto a Repubblica, ma “il genocidio è l’atto deliberato di cancellare una popolazione, e finora non sembra quanto Putin ha in mente. Per ora riserverei questo termine agli ebrei, gli armeni, i ruandesi”. Qualche giorno fa Emma Bonino ha ribadito la convinzione che Putin sarà processato per “crimini di guerra” dal Tribunale internazionale dell’Aja, come è già avvenuto per Milosevic, senza però esplicitare il termine genocidio.
Non si tratta solo di sfumature concettuali, o peggio di capziosità che puntano surrettiziamente a sminuire le responsabilità morali e penali di Putin (che pure qua e là esistono). E’ che la parola “genocidio”, creata e utilizzata per la prima volta nel 1944 dal grande giurista ebreo polacco Raphael Lemkin nel suo saggio “Axis Rule in Occupied Europe”, è un concetto che racchiude molte complessità, la cui definizione ha richiesto molte riflessioni e il cui utilizzo non è mai stato pacifico. Lemkin fu animatore di un grande lavoro di riflessione che riuscì a imporre la definizione di “genocidio” a una comunità internazionale piuttosto riluttante (nonostante la Shoah fosse ancora in corso: per lo storico Yehuda Bauer la fine dello sterminio degli ebrei va posta al 1950, col ritorno a casa di tutti i sopravvissuti). Ma tanto Lemkin – che ad esempio fallì nel tentativo di far recepire anche il concetto di “genocidio culturale”, anche per l’opposizione di nazioni europee e degliStati Uniti – quanto chi ha condotto nei decenni ricerche e battaglie per affermare la necessità non solo della memoria ma della sanzione penale dei crimini contro i popoli sanno bene che le parole indicano spazi e storie che vanno delimitati con precisione.
E’ la storia-riflessione raccontata da Gabriele Nissim, storico e creatore della Fondazione Gariwo - il Giardino dei Giusti, nel suo ultimo libro, “Auschwitz non finisce mai - la memoria della Shoah e i nuovi genocidi” (Rizzoli). Fin dal titolo, che suona drammatico avvertimento, non si rivolge solo al passato. Fu detto, dopo la Shoah, un “mai più” solenne da parte di tutte le nazioni. Ma che a dovuto più volte essere ribadito, fino alla vergogna internazionale: in Ruanda, nei Balcani, in Cambogia, per i rohingya e oggi per l’Ucraina da “de-nazificare”. Alla radice di questa incapacità inoperosa a prevenire i genocidi, come da Convenzione dell’Onu, stanno ovviamente tanti motivi politici. Ma c’è anche la difficoltà storica incontrata, a molti livelli, di far percepire moralmente – e quindi politicamente e giuridicamente – la specificità, e l’abisso di orrore, che fa di certi eventi qualcosa di profondamente diverso dai “crimini di guerra”, o persino “contro l’umanità”. Ogni qualvolta un aggressore compie o tenta lo sterminio di un’intera popolazione o etnia, esiste una intenzionalità che lo pone al di fuori della normale “logica di guerra”. E al di fuori dell’umanità. Ma non tutte le guerre sono così, altrimenti diventerebbe più astratta, aleatoria, la possibilità stessa di giudicare.
Raphael Lemkin, di cui Nissim ripercorre il percorso umano e intellettuale, e basterebbe per consigliare il libro, partì nelle sue riflessioni addirittura prima della Shoah, indagando il genocidio armeno. Ma come spiega Nissim e come sa chiunque frequenti questi temi, la stessa applicazione della categoria genocidio a eventi diversi da quello degli ebrei è stata difficile e contrastata. E’ il grande dibattito attorno alla cosiddetta “unicità”, o persino al significato religioso e metastorico, della Shoah, qui ben chiarito. Ma il punto di fondo, cioè la reale capacità di usare quella Memoria come monito e prevenzione per tutti i popoli – sottraendolo quindi a una “gerarchia esclusiva” – era già chiaro quando personalità come Simone Veil o George Steiner iniziarono a indicare una definizione di Shoah non come fatto “unico” ma come “genocidio senza precedenti che si può ripetere”.
La ripetibilità dei genocidi è infatti l’urgenza che ha interessato tutta l’opera di studiosi-attivisti come Avraham Burg, di cui Nissim ripercorre la vicenda. Burg, israeliano, è stato uno dei primi a porre ai suoi concittadini il problema di “uscire dallo stato di vittime permanenti” e di “non vedere la Shoah come questione che riguarda solo gli ebrei”. In altre parole, l’invito a “sconfiggere Hitler” (è il titolo di un suo libro) non come un ricordo del passato ma nel presente: cioè riconoscendo che essere il popolo che ha vissuto il genocidio più grande e “senza precedenti” non deve essere un elemento di chiusura nazionalistica, ma di responsabilità universale e collettiva. Ma una coscienza così, che ovviamente non riguarda solo gli ebrei, non è facile: si pensi alla lentezza colpevole con cui sono stati riconosciute tragedie più recenti. Nissim incontrò, con stupore amareggiato, persino la diffidenza dei responsabili di Yad Vashem ad ampliare la qualifica di “giusto”, riservata solo a chi aiutò gli ebrei, a chi ha salvato vite in tutti i genocidi. Ma tenere viva la memoria dei genocidi, e chiedere di individuarli e prevenirli, non può essere una appropriazione nazionalistica, ma un impegno internazionale a tenere alta l’attenzione. Ben conoscendo anche la difficoltà di attribuire e certificare le responsabilità, cosa che potrebbe riproporsi con i russi in Ucraina. Auschwitz non finisce mai, è l’ammonimento. Per questo utilizzare i termini e passi giuridici giusti è fondamentale.