Cancel Culture
Abbiamo sacralizzato ogni cosa, dalla cultura agli ideali
L'importanza della pluralità della lingua e il rifiuto di ogni sacralizzazione sono i due insegnamenti del racconto di Babele. Oggi invece tutto è diventato intoccabile, tranne ciò che non rientra nei nostri canoni di giudizio
La profonda frammentazione che contraddistingue la nostra società rinvia quasi spontaneamente al famoso episodio biblico della torre di Babele. Il linguaggio dei social media, la loro virulenza, le cosiddette camere dell’eco, il nostro disorientamento, la crisi della verità, la crescente difficoltà a comprendersi, la stessa cancel culture, tutto sembra evocare la “confusione” di Babele e la punizione terribile del Signore Iddio: “Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”.
Il verdetto sembra in effetti inequivocabile: una sorta di pietra tombale fatta cadere sulla possibilità della comprensione tra gli uomini, una sconvolgente legittimazione di quel mondo come volontà senza verità, che caratterizza l’odierna cancel culture e l’uso isterico del tema dell’identità che ne fanno i suoi protagonisti. Per costoro conta soltanto ciò che “sentono” in quanto gruppo, non certo la ragionevolezza degli argomenti. Sentirsi discriminati, offesi o sotto attacco è sufficiente per mettere in atto le più incredibili strategie di intimidazione e di cancellazione. Incredibili, perché purtroppo sembrano avere successo, generando in questo modo diffidenza, disprezzo e divisioni incolmabili nella società. Sembra insomma che la dispersione successiva al peccato di Babele stia danzando il suo tripudium. Ma io credo che questo episodio possa (e debba) essere interpretato anche in un altro modo.
Se ci atteniamo letteralmente al racconto biblico e consideriamo la pluralità delle lingue come conseguenza di una punizione divina, rischiamo non soltanto di mettere a repentaglio uno dei capisaldi della nostra cultura liberale, appunto il pluralismo, ma anche di farci un’idea sbagliata di Dio. Dio non può punire in quel modo. A meno che, come credo, la dispersione delle lingue da lui operata non rappresenti una sorta di ripristino dell’ordine: l’ordine della pluralità in cui, per dirla col titolo di un mio libretto, consiste “l’ordine di Babele”. In questo senso, la “punizione” da parte di Dio diventerebbe forse più plausibile e il pluralismo acquisterebbe la connotazione positiva che gli spetta.
Come è stato notato da diversi studiosi, la pluralità delle lingue esisteva già prima che gli uomini decidessero di costruire la famosa torre. I figli di Noè avevano già dato vita alle nazioni “disperse per le isole nei loro territori, ciascuno secondo la propria lingua” (Genesi 10, 5). Ma allora c’era il Signore Iddio a garantire l’unità di tutti i popoli e di tutte le nazioni. Di conseguenza, quando nel testo biblico si dice che “tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole” (Genesi 11, 1), si allude presumibilmente all’armonia che le diverse lingue trovavano nello spirito di Dio. La diversità, in altri termini, non intaccava ancora l’unità della famiglia umana; semplicemente l’arricchiva. Ma il contesto cambia nel momento in cui, a Babele, si dice: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Qui l’unità si infrange, subentra chiaramente l’orgoglio di toccare il cielo, di diventare come Dio e di deturpare così il suo disegno. La volontà di “farsi un nome”, di darsi “una sola lingua” che non è più quella di Dio genera insomma il vero peccato di Babele: un modo sbagliato, esclusivo, di affermare la propria identità, diciamo pure di sacralizzare la propria lingua, che Dio sembra punire con la suddetta “dispersione”, proprio al fine di restaurare un ordine che non ammette sacralizzazioni secolari di alcun tipo.
Se dunque questa punizione è anche un ripristino da parte di Dio del giusto ordine delle cose, allora ciò vuol dire che il pluralismo, il confronto tra lingue diverse, l’impegno per una reciproca traduzione/comprensione diventano addirittura una sorta di imperativo teologico, diciamo pure la condizione grazie alla quale le lingue e le culture possono arricchirsi. Da Babele sembrano venire così due importanti indicazioni: anzitutto vengono ripristinate la pluralità delle lingue e la fiducia nella loro pur difficile traducibilità; in secondo luogo veniamo messi in guardia rispetto a qualsiasi forma di sacralizzazione della nostra lingua, quale che sia.
Ritornando a quanto dicevo all’inizio, alla base della frammentazione che stiamo sperimentando nella nostra società opera precisamente un atteggiamento sacralizzante di questo tipo, non il pluralismo. E’ la progressiva distruzione di ciò che è comune (l’umanità, la verità, il linguaggio, la ragione) a generare l’emotivismo identitario imperante sui social, con tutti i suoi effetti dirompenti per le nostre liberaldemocrazie. Venuti meno i presupposti della nostra convivenza, ci siamo messi a sacralizzare tutto: la nostra cultura, i nostri gusti sessuali, i nostri ideali patriottici, il nostro gruppo di riferimento. E guai a chi non rientra nei nostri canoni di giudizio, per lo più emotivi. L’odio, la molestia, l’ostracismo, la cancellazione sono all’ordine del giorno nei nostri dibattiti politici, morali o religiosi che siano. Ma incredibilmente facciamo finta di non accorgercene. Né all’orizzonte si vede un Dio che scenda a punirci per ristabilire un po’ d’ordine.