Quando l'abitudine al sospetto porta a dubitare della propria innocenza
Stoccolma è sotto attacco nel nuovo libro di Jonas Hassen Khemiri con cui lo scrittore si infila nel circolo del dubbio, con un rapporto ambiguo tra realtà e finzione
Ci sono dei dati di fatto. Un’auto esplosa nel centro di Stoccolma (è realmente accaduto, nel 2010), la notizia data sui telegiornali che si trasmette di bocca in bocca. E poi ci sono le interpretazioni che trasfigurano il dato fattuale. Chi è stato? La domanda è perigliosa più di quanto possa sembrare e dalla penna dello scrittore Jonas Hassen Khemiri si fa spunto per un testo – breve: una stilettata – in cui la risposta è volutamente, e provocatoriamente, assente. Si intitola Chiamo i miei fratelli, il libro appena uscito per Einaudi nella collana Supercoralli, dello scrittore nato e vissuto a Stoccolma vincitore con Tutto quello che non ricordo (in Italia per Iperborea) del massimo premio svedese, l’Augustpriset. In questo nuovo testo, che non è una pièce teatrale ma quasi, non una novella, non un romanzo breve, non un vero e proprio flusso di coscienza, l’autore cristallizza dialoghi inframmezzati da narrazioni, pause di realtà mediate dalla parola che qui ha la capacità chirurgica di ritagliare interrogativi feroci. Se il rapporto tra realtà e finzione appare ambiguo per chi legge, anche Amor – che vive, e racconta – si infila nel circolo escheriano del dubbio: entrata e uscita non sono sullo stesso piano, ma collegate da una interruzione di logica.
E’ colpevole chi ha commesso il fatto o chi ha aprioristicamente le fattezze, gli indizi, per esserlo? E’ colpevole anche chi non immagina di esserlo? Sono colpevoli, lui e i suoi fratelli? Non così implicita, tutt’altro, la denuncia di un modo di pensare che scivola verso l’affermazione di una verità estensiva che può non avere tangenza col reale, e convincere del falso anche chi sa di sé il vero (chiude il volume, non a caso, in appendice, una lettera aperta del 2013 al ministro della Giustizia Beatrice Ask, e un primo racconto a caldo).
“Chiamo i miei fratelli e dico: E’ appena successa una cosa terribile. Avete sentito?”.
“Chiamo i miei fratelli e dico: E’ ora. Alzatevi dal letto. Fatevi la barba. Infilatevi dei vestiti puliti e in ordine”.
“Chiamo i miei fratelli e bisbiglio: Okay confesso sono stato io. Sei stato tu cosa?”.
“Chiamo i miei fratelli e dico: E’ appena successa una cosa assurda […]. Mi ci è voluto un po’ per rendermi conto che era il mio riflesso”.
Chiamo i miei fratelli è una ricerca dell’identità prima. Del legame che viene dal sangue, dalle abitudini, dai sentimenti, dalla pratica esistenziale, dai condizionamenti esterni. Nella vita di Amor c’è Shavi che “è mio fratello quasi come i miei fratelli” e che “ci stav[a] andando a votare. Ma la Cucciola aveva la febbre”. C’è Ahlem che “mi ha spiegato che la famiglia è la famiglia e la famiglia non tradisce, adesso devi prenderti cura dei tuoi fratelli come io mi prendo cura di te e anche se sei una schiappa io resto sempre tua cugina”, e poi c’è Valeria che “partiamo, tra un giorno due settimane tre mesi arriveremo da qualche parte e sapremo entrambi, di colpo sapremo che siamo arrivati, è questo il posto per noi”, Karolina del call-center degli Amici degli animali ma che in realtà si chiama Golbarg “ma mi chiamo anche Karolina”, e infine la nonna che oramai, da un altrove inconoscibile, un giorno ha ventidue anni, un giorno cinquantacinque e un giorno dodici.
Chi sono i fratelli che Amor chiama, quindi? Sono gli elementi del sistema periodico che erano i soprannomi usati alle superiori: Elio, Titanio, Uranio, Ferro, Azoto, Piombo, Arsenico, Azoto, ciascuno perfettamente determinabile ma forse inconoscibile come nell’esperimento del gatto di Schrödinger, perché “aggrapparsi alla rabbia è come afferrare un carbone ardente per lanciarlo a qualcuno. Sei tu che ti bruci”. Meglio non toccare. Ma sapere, sempre.