Inherent vice

Il grande romanzo americano è un affresco critico dei migliori saggi d'oltreoceano

Alberto Fraccacreta

Agostino Lombardo è stato il miglior americanista italiano: minimum fax ha deciso di rendere onore al suo attento lavoro su James, Melville, Poe, Whaton, Steinbeck con un'edizione nel quale il linguista definisce il suo personale canone

L’ideatore dell’americanistica a livello accademico in Italia è stato Agostino Lombardo. Lo ricordano con grande affetto nella sua limpida dizione e nelle movenze gentili Sara Antonelli e Luca Briasco, curatori di quell’immenso affresco che è Il grande romanzo americano (minimum fax, 445 pp., 18 euro), una raccolta di saggi che va da Edgar Allan Poe a Stephen Crane, da Ambrose Bierce a Edith Wharton, da John Steinbeck a Saul Bellow. “Seguendo le orme di Francis Otto Matthiessen – notano gli allievi – e del suo Rinascimento americano (1941), Lombardo istituisce il suo canone americano scegliendo quasi immediatamente i quattro punti cardinali che sente più solidi: Nathaniel Hawthorne, Herman Melville, Henry James e William Faulkner”.


Da questo quadrilatero solidissimo Lombardo, ottimo traduttore di Shakespeare (Strehler mise in scena la sua versione della Tempesta), sembra partire per allargare lo sguardo anche su autori più recenti e coglierne la filigrana allusiva. Ciò che è essenziale per lo studioso messinese è l’accostamento critico alla disciplina. Osservano ancora Antonelli e Briasco: “Per Lombardo la critica è, per definizione, ‘imperfetta’. Gli approcci teorici che si succedono a partire dagli anni Sessanta e dallo Strutturalismo lo incuriosiscono, certo, ma non possono convincerlo. Sono, in fondo, come l’allegoria, che sovrappone un significato fisso a una realtà che resta irredimibile, mutevole, e che solo il simbolo sa afferrare e trasformare. La letteratura, per Lombardo, non può e non deve essere assoggettata a modelli interpretativi, ma, come un corpo vivo, cambia con lo sguardo di chi lo studia e prima ancora lo vive”


Benissimo. Partendo da queste basaltiche premesse, di cosa parlano nel concreto i testi? Il primo è un sondaggio interpretativo sulla narrativa di Poe: “Le situazioni poesche – le scene d’angoscia, di violenza, certi oggetti, certi ambienti, certe figure umane – sono il correlativo oggettivo, per usare il termine di Eliot, di una visione della vita che cerca, com’è sempre dell’arte, la propria espressione sensibile”.


Si passa a un ritratto di Hawthorne – “scrittore piacevole, con un piacevole stile” ma che nasconde una profondità “di peccato e di mistero” – e alla ricerca secondo Melville, cantore di vita e morte, amore e odio, umiltà e ambizione. 


Con Twain, Bierce e Crane si indagano i vari aspetti dell’ironia sino alla constatazione del pessimismo e del pantragismo di questi autori, così legati a un’identità “senza storia e senza passato”, liberi e spregiudicati dinanzi alle contraddizioni del reale. L’introduzione a Henry James è poi uno degli articoli centrali del libro: qui Lombardo si misura con un’opera che conosce molto da vicino. Negli anni Sessanta aveva tradotto infatti per Sansoni i romanzi di James, la cui “vocazione religiosa non sopporta i legami di una religione decodificata”. “Di qui un’attività indipendente di pensatore; di qui l’elaborazione di una filosofia in cui si riconosce il senso del male e del peccato, perenne alimento della tradizione americana, proprio del calvinismo, ma che si nutre altresì dell’ottimismo e dell’entusiasmo di Emerson e del trascendentalismo (che fiorisce appunto in quegli anni), nonché d’una vena di misticismo dovuta alla lettura di Swedenborg”.  


Non c’è giudizio ermeneutico più azzeccato per definire un testo come La casa natale (a cura di Sergio Perosa, Edizioni Spartaco, 152 pp., 14 euro), in cui si avvicendano lo spirito ectoplasmatico di Shakespeare, un custode-clown e una serie imbarazzante di mistificazioni che assomigliano profeticamente alle odierne fake news. Pubblicato per la prima volta in Italia, anche questo romanzo di James si sposa alla perfezione con l’idea lombardiana di “intensità morale” che avvolge la sua scrittura, calcata su un retroterra puritano.
Discepola di James fu Edith Wharton, giudicata umoristica, graziosa, capace di minute introspezioni psicologiche; mentre il “barbarico” Hemingway è in verità estremamente levigato e conscio della sua arte. Faulkner, Steinbeck, Salinger e Bellow concludono a loro modo – asprezza, politica, esistenzialismo – la rassegna del succulento canone. La tavola è apparecchiata. Il grande romanzo americano è servito. 

 


Questa è la settima puntata della rubrica Inherent Vice. Come prescrive il diritto marittimo, il “vizio intrinseco” è tutto ciò che non è possibile evitare. Potrebbe essere anche una visione specifica, una chiave di accesso della letteratura americana, a cui questa rubrica è dedicata.

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