Addio a Biancamaria Frabotta, poetessa e saggista
“Bisogna di nuovo imparare a vivere”, era il suo motto. La letteratura come soluzione, la grande risorsa degli esseri creativi, più esposti alla sofferenza e alla malinconia
Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano ma sono ovunque noi siamo”. Adesso che Biancamaria Frabotta ci ha lasciati, questa epigrafe che accompagna i versi della sua nuova raccolta, Nessuno vede nessuno, in uscita a fine mese da Mondadori, ha qualcosa di profetico. Così come quello che andava dicendo: “Sarà il mio ultimo libro”. Ma diceva così solo perché i libri di versi si mettono insieme negli anni, molti anni – e lei era nata a Civitavecchia l’11 giugno nel 1946, ne aveva già settantasei di anni – non certo perché le mancasse la voglia di vivere, e di guardare il mondo, e di scrivere. Anzi era un buon periodo: il ritorno in libreria del suo unico romanzo, dell’89, Velocità di fuga (Fve edizioni) le aveva dato molta allegria.
La storia di un gruppo di giovani intellettuali, maschi presuntuosi e femmine battagliere, un “come eravamo” nel ’68 o giù di lì, un intenso discutere di letteratura e di politica in vecchi scantinati che sarebbero poi diventati teatrini off. C’era tanto femminismo nell’opera poetica e saggistica di Biancamaria, come in quel romanzo di formazione (così lo definiva lei) in quei lontani anni 70-80, e poi il respiro si è dilatato in grandi tematiche sapienti, sul dolore, la vita, le guerre (non più solo quelle fra i sessi), il passato classico che irrompe nella contemporaneità.
Credo che il suo motto fosse: “Bisogna di nuovo imparare a vivere”, come scrive in una poesia de La materia prima. Rimparare ogni volta, dopo un dolore, una malattia, una perdita. E lei lo faceva sempre, con forza e convinzione. E con una sottile allegria, esplodendo magari in una risatella. E Risatelle è il titolo di un delizioso scambio in versi fra Biancamaria e il marito Brunello Tirozzi, di professione fisico, ma ormai assunto anche lui nelle file della poesia, pubblicato da Empirìa nel 2016: “Sulla via che s’allontana / finché non trema la mano / la poesia la noia inganna / o nostra dolce manna” scriveva lei in quel libretto.
Perché era la letteratura la soluzione, la grande risorsa degli esseri creativi, più esposti alla sofferenza e alla malinconia forse già per carattere, ma capaci di dimenticare il mondo per non vedere altro che la scrittura. “Mi presti i tuoi occhi per guardarti? / A chi negheresti una lente nitida sul mondo?” diceva in Lo sguardo del poeta del ’91. Uno sguardo assente, eppure capace di leggerlo quel mondo misterioso, e interpretarlo e in qualche modo spiegarlo. Con la poesia e con tanta saggistica nel suo caso.
Fondamentale, per esempio, fu il suo studio Giorgio Caproni. Il poeta del disincanto (Officina, 1993), e disincanto, a pensarci adesso, è un’altra parola chiave del pensiero di Biancamaria Frabotta. E’ pieno di disincanto il volume mondadoriano Tutte le poesie 1971-2017 (postfazione di Roberto Deidier, nota biobibliografica di Carmelo Princiotta) che l’ha consacrata quattro anni fa. La consapevolezza costante della precarietà: quel sentirsi leggeri e fuori pericolo per poi cadere improvvidamente sulle proprie gambe e non rialzarsi più.