Archivio - 16 novembre 2013
Un ricordo di Carlo Gregoretti
Il lavoro infinito di redazione, gli scoop, le cronache, la politica e la cura dei dettagli: un giornalista formidabile. Ecco uno dei suoi ultimi straordinari racconti
Di Carlo Gregoretti giornalista (formidabile) parla lui stesso con modestia e ritegno personale nell’articolo e memoria che consegnò quasi dieci anni fa al Foglio, e non avrebbe senso aggiungere alcunché. Parafrasandolo nelle sue conversazioni con Arrigo Benedetti, ispiratore e mentore, si può dire che se il lettore non sa di Longanesi, di Pannunzio, di Omnibus, dell’Europeo, dell’Espresso e dell’arte del rotocalco, bè, peggio per lui.
Carlo Gregoretti era anche un gran signore, un uomo di famiglia e di figli (anche altrui, era padre con naturalezza e slancio emotivo), uno sposo innamorato della sua Chicchi fino alla follia, un barcaiolo e pescatore, un amante della vita nei dettagli minuti, un eccellente cuoco che poteva filosofare con logica scolastica e fideismo occamista sul passaggio rapido del pomodoro nella salsa impadellata, un amico di un’epoca in cui l’amicizia era ammirazione e stile, un re del Martini dry che shakerava allegramente con il quasi centenario Fabrizio Dentice, che lo ha preceduto di un paio d’anni nella morte, inneggiando all’eterna giovinezza del dandy.
Il rotocalco, i caratteri, i titoli e le virgole e la prima riga dei pezzi, l’equilibrio dell’impaginazione, il lavoro infinito di redazione, lo scoop, le cronache, la politica, i nomi delle cose il più possibile precisi, questi erano i suoi materiali, dettagli fra i dettagli e insieme ragioni di lavoro e di intelligenza e di gusto. Fu da subito il giovane dell’Espresso, crebbe con una generazione di italiani che cercavano e trovavano stimoli di abbondanza e di novità nei fenomeni moderni, conobbe la divisione e il dolore professionale, mantenne sempre quella distanza carica di nostalgia, quell’effetto dry e pescatore, di persona che sa attendere e ricordare, che si prende il tempo necessario, e non smette mai di sorridere anche quando si scambia lo stridio rauco del corvo per un grido d’aquila. E’ stato un piacere, un dovere per il Foglio, ospitare questo che è uno dei suoi ultimi, straordinari racconti.