il paese nascosto
Basta pacchetti tutto compreso, il turismo lento riscopre la provincia italiana
Altro che Italia minore. A piedi o in bici, ecco le vie dimenticate dove passa il nuovo Grand tour
In Italia le metropoli di respiro internazionale si possono contare sulle dita d’una mano, e delle proverbiali “cento città” solo una dozzina si ribella con medievale cipiglio a essere relegata alla categoria di “provincia”; tutto quello che resta fuori dai grandi centri urbani viene perlopiù accomunato sotto la categoria residuale di “Italia minore”. Non si tratta di una semplificazione meramente ingenerosa, ché relegare in blocco nella serie B dell’immaginario nazionale borghi vecchi di venti secoli, cittadine solcate da fiumane di pellegrini sin dal Medioevo, vecchie potenze marinare e comunità montane con una lunga storia di autonomia alle spalle significa dimostrarsi miopi, ottusamente impermeabili alle opportunità di questo momento storico.
Anche in Italia è in corso la rivoluzione gentile che coinvolge l’intero occidente, basata sull’idea di una maggiore consapevolezza nel nostro rapporto coi consumi e gli stili di vita. Si fa più attenzione alle fonti di energia e al riciclaggio, come alla provenienza di ciò che si mette in tavola; i giovani, largamente alieni all’idea di prendere una posizione militante in politica, si ritrovano a manifestare sotto l’insegna ecologista dei Fridays For Future, e anche i loro genitori e fratelli maggiori trascorrono sempre più volentieri il proprio tempo libero muovendosi a piedi e in bicicletta.
La parola magica che risuona nelle fiere del turismo come “Fa’ la cosa giusta”, la cui ultima edizione si è chiusa domenica scorsa in quel di Milano, è “esperienziale”: i pacchetti tutto compreso sono ormai vestigia del passato, e l’idea di viaggio si va spostando con nettezza verso la dimensione autogestita del turismo lento. Ecco allora che la cosiddetta “Italia minore”, da fastidioso intermezzo fra una città e l’altra, spazio vuoto da misurarsi in minuti di treno o di automobile, conquista la ribalta come teatro privilegiato, scenario in cui il viaggiatore trascorre gran parte del suo tempo, investe aspettative e dispiega emozioni.
Se bastano un paio d’ore di guida per andare da Milano al Mar ligure, o dalla Val d’Orcia a Roma, coprire quelle distanze a piedi significa dedicare alla causa un’intera settimana. Il premio per la fatica è un duplice dono. In primo luogo, invece di sottoporsi a una via crucis di gallerie e rallentamenti da traffico si scopre il piacere di una piena libertà, e – se proprio non si è degli incalliti misantropi – si gode dell’umana vicinanza dei compagni di viaggio, con modalità non dissimili da quelle di dieci o venti secoli fa. Non meno prezioso è il secondo dono che il viaggio lento porta con sé: la conoscenza. Per chi ha percorso la Via del Sale fra Lombardia e Liguria, Varzi smette di essere un nome curioso e prende le sembianze fisiche ed emozionali d’una cittadina dall’impianto medievale, posta a presidio di un ponte che segna il confine fra civilizzazione e terra selvaggia; allo stesso modo, per chi cammina sulla Via Francigena diretta all’Urbe, Radicofani, Viterbo e Sutri cessano di essere semplici nomi e diventano luoghi concreti, capaci di restare nel cuore come accade solo per i posti che si sono conquistati a forza di gambe al termine d’una lunga salita, dai quali ci siamo congedati con un emozionante passaggio attraverso le vie cave etrusche, o dove siamo stati accolti nell’ombra mistica d’un antichissimo tempio dedicato al culto del dio Mitra.
Ribaltando la prospettiva per assumere quella delle amministrazioni locali e delle attività economiche presenti sul territorio, tanto si è ormai detto sui benefici economici che questa nuova filosofia del viaggio può fruttare: il cosiddetto “effetto Santiago”, capace di risollevare le finanze di insediamenti che parevano condannati alla morte civile, si è già manifestato con evidenza lungo gli itinerari più à la page del Bel paese, come la stessa Francigena, o la Via degli dèi fra Bologna e Firenze, un tempo riservata agli ardimentosi disposti a percorrerla in tenda e oggi disseminata di bed & breakfast. “Il Molise esiste”, specie per chi l’ha attraversato a passo d’uomo lungo il Regio Tratturo, conosce il gusto dei cavatelli alla lepre o del torcinello a chilometro zero, la qualità specifica d’un tramonto sui monti del Matese e la meraviglia di una sosta fra le rovine romane di Saepinum; con esso esiste un paese intero che dalle Alpi si protende nel cuore del Mediterraneo, un paese fatto di valli, baie e contrade lontane dai grandi centri urbani, che si offre come immenso “campo di gioco” per i viaggiatori curiosi.
La prova del rinnovato interesse per la provincia profonda è il recente profluvio di pubblicistica dedicata a luoghi orgogliosamente ignorati sino all’altro ieri, o visti tuttalpiù attraverso la lente deformante del pittoresco, col risultato che meritavano la nostra attenzione esclusivamente nel fine settimana della sagra paesana, del Carnevale matto o della processione truculenta, ovvero nei pochi giorni in cui si travestono consapevolmente ad uso dei turisti.
Va da sé che risulta più autentica e rilassante l’esperienza di arrivarci un mercoledì qualsiasi di primavera o nella dolce coda dell’estate, quando ormai hanno riaperto le scuole, i visitatori sono rari e non c’è coda in trattoria.
Fra i titoli più interessanti usciti di recente segnaliamo Pietre d’Appennino, edito da Ponte alle Grazie in collaborazione col Club alpino italiano. L’autore, Alessandro Vanoli, muove dalla sua formazione di storico che l’ha portato a pubblicare testi divulgativi di grande interesse come Quando guidavano le stelle, Strade perdute e La via della seta – quest’ultimo scritto a quattro mani con Franco Cardini – per addentrarsi nei meandri della catena montuosa che fa da spina dorsale all’Italia. Oggetto particolare della sua attenzione è la porzione di Appennino tosco-emiliano compreso fra i colli della sua Bologna e lo spartiacque tra le due regioni. Non meraviglia, alla luce delle premesse circa la nuova sensibilità per i cammini, che la formula prescelta da Vanoli sia quella del viaggio zaino in spalla, lungo un percorso triangolare che lascia la città lungo la valle del Reno, solca l’aereo crinale costellato di laghetti al confine con la Toscana, per poi ridiscendere verso la pianura adagiandosi per buoni tratti lungo la Via degli dèi.
I luoghi attraversati da Vanoli si rivelano come scrigni di storie che vanno dalla colonizzazione etrusca alle battaglie della Linea gotica, passando per la stagione a cavallo dell’Unità nazionale in cui il conte Mattei, pioniere della “nuova scienza elettromeopatica”, costruì la sua clinica-albergo in stile eclettico. Chiunque abbia percorso la Via Porrettana considera una visione familiare questo edificio dotato di cupole da chiesa ortodossa, torrioni e decori moreschi, ma pochi sanno come come qui il “Conte Magico” curasse tutti i mali della sua ricca clientela grazie a un’originale combinazione di piante ed elettricità, divenuta talmente popolare tra le élite europee del secondo ’800 da meritare una citazione nei Fratelli Karamazov.
Ancora più riposti sono i luoghi presi in esame da Riccardo Finelli nel suo Atlante dei paesi fantasma, di recentissima uscita per Sonzogno. L’autore, che ha eletto a musa la geografia e abbracciato come misura ideale quella del racconto di viaggio (bibliografia minima: Appenninia, Destinazione Santiago e Il cammino dell’acqua), sceglie qui venti paesi sparsi fra l’arco alpino e il Meridione, accomunati dall’attuale stato di completo abbandono o di riduzione della popolazione ai minimi termini. Se gli esiti della rarefazione umana sono simili, le storie dei paesi fantasma sono tutte diverse, e l’autore ha avuto la felice intuizione di raggrupparle in partizioni distinte: ecco Alianello, ridotto da comunità ad abitato “inagibile” dopo il terremoto del 1980 e altri paesi abbandonati in seguito all’erosione, come Roscigno, nel cuore del Cilento, e la calabrese Roghudi, “enorme rapace rinsecchito ancora aggrappato sull’istmo alla confluenza del torrente Furria nell’Amendolea”, ed ecco accanto a quelli le “cattedrali nel deserto” come la brianzola Consonno, esperimento fallito di una Las Vegas brianzola, o Monteruga, cittadella di fondazione legata alle coltivazioni di tabacco nel Salento e andata a ramengo insieme all’intera filiera. Ecco infine luoghi cari agli escursionisti, messaggeri privilegiati di una possibile rinascita, come accade con Codera, il paesino privo di strade asfaltate incastonato fra Val Chiavenna, Valtellina e Svizzera, che deve buona parte della sua fama a decenni di campi scout.
L’ultimo dei paesi presi in esame regala al libro il retrogusto del monito: Finelli racconta di Craco, già “stella dei ghost villages” d’Italia, rilanciata grazie a una partnership pubblico-privata come scenario di produzioni cinematografiche ed eventi culturali, e al momento malamente abbandonata a se stessa per la più triste delle ragioni: la discordia seguita a un cambio di sindaco e giunta, prova regina del fatto che senza una impostazione centralizzata, condivisa e coerente, neppure i più virtuosi dei pionieri possono riuscire nei miracoli. Il terzo e ultimo titolo che ci ha conquistati è l’Atlante inutile del mondo di Albano Marcarini edito qualche mese or sono da Hoepli e sottotitolato in maniera emblematica 100 luoghi che non hanno fatto la storia: si tratta di una bella edizione dalla copertina rigida arricchita, come da consuetudine dell’autore, da un ricco apparato iconografico.
Marcarini è valente acquarellista, con una vocazione particolare per i posti-tappa delle vie storiche, ma in questo caso ha preferito abbinare la scheda di ogni luogo preso in esame con una sontuosa tavola cartografica, una scelta che fa pensare al raffinato Manuale dei luoghi fantastici di Alberto Manguel e Gianni Guadalupi, la cui edizione originale del 1982 è oggi un gioiello per bibliofili. I due composero un prismatico baedeker corredato di indicazioni per visitare Lilliput, Oz, Flatlandia e una messe di altri paesi e città analogamente scaturiti da fantasie letterarie, mentre Marcarini presenta un carosello di località della cui esistenza non possiamo dubitare, accomunate da un destino all’insegna delle occasioni mancate. Se pure il suo repertorio spazia per le terre emerse di tutto il globo, l’Italia merita un’attenzione particolare e apre il volume schierando un ventaglio di località decadute.
Si va da Benzinopoli, la cittadella odorosa d’idrocarburi che fu simbolo del Boom degli anni 60 e oggi sparita per lasciar spazio all’area dell’Expo milanese, agli spazi di risulta degli svincoli autostradali; oltre a quelli ben noti a forma di quadrifoglio, Marcarini ne censisce altri “a pipa, a trombetta, a buccia d’arancia, a mandorla”.
Come ogni viaggio che si rispetti, le sue suggestioni spaziano fra le epoche: a Pietramala, lungo la strada della Futa, i viaggiatori del Grand tour approdavano per assistere al fenomeno dei “fuochi ardenti”, un’esperienza non priva di emozioni – le fiamme che sorgevano dal terreno erano ritenute opera satanica – e rischi concreti, tanto che il marchese De Sade raccomandò ai suoi lettori di evitare la malfamata locanda del paese, dove il meglio che potesse capitare era essere rapinati. Servì la visita di Alessandro Volta per spiegare il fenomeno, ma la scienza uccise il turismo: chiarito che si trattava di emanazioni di metano, Pietramala perse la sua aura soprannaturale e sparì dalle mappe. E che dire dell’Isola degli Internati, un lembo di golena del Po trasformato nel secondo Dopoguerra in una comune agricola per i militari reduci dalla prigionia in Germania? Abbandonata negli anni Cinquanta, è oggi visitata perlopiù dai cicloturisti in viaggio lungo la pista che segue l’argine emiliano del Po: ennesima dimostrazione che muoversi lentamente è la modalità privilegiata, se non l’unica, per conoscere luoghi straordinari che altrimenti sarebbero condannati all’oblio.