I NUOVI DIMISSIONARI
Ci mancava solo quello che molla il lavoro e scrive un libro per raccontarlo
Fra boschi norvegesi e mari lontani. Esistono momenti della vita in cui si è più inclini a scrivere, ma non tutte le avventure sono degne di essere raccontate. Meglio leggere
Esistono momenti della vita più cedevoli di altri verso il baratro della letteratura. Baratro, abbiamo detto. Non consolazione. Forniscono consolazione i libri già scritti. Nel baratro ci sono i libri con l’etichetta (voi non la vedete, ma c’è) “quasi quasi ne scrivo uno”. Per raccontare l’esperienza. Testimoniare. Dire ai compagni di sventura che non sono soli. Erano le storie che stavano sui giornali, sezione vita vissuta: “E’ successo anche a me; una persona che non dimenticherò mai; la persona a cui devo le mie scarpe nuove; il guru che mi ha convinto ad allevare lombrichi che fanno tanta compagnia; la guru che mi insegna a vivere con cento oggetti, massimo centouno.
Il momento numero uno non si può evitare. Trattasi del primo amore, nessuno a quell’età è abbastanza forte da non buttar giù (almeno) qualche pagina di diario. O qualche poesia. Il secondo ha avuto grande visibilità una quindicina di anni fa (e continua, come i romanzi sui brufoli adolescenziali). Riguarda i genitori con l’Alzheimer: bisogno di accudimento e la mente che se ne va offrono parecchi spunti tragicomici.
Il terzo, segnalato qualche giorno fa sul Guardian da Laura Barton, riguarda la Great Resignation: le dimissioni di persone che hanno un lavoro, e non ne vogliono uno meglio pagato o di maggiore responsabilità. Mollano l’impiego perché la pandemia li ha spinti a riconsiderare parecchie cose. Il tempo perso da casa al lavoro, la schiavitù del cartellino, il vicino di scrivania con la pianta carnivora dietro il computer. Fanno il gran rifiuto, e nel “tempo liberato” – caro a Gianroberto Casaleggio: il reddito di cittadinanza non spinge alla pigrizia bensì a elevati pensieri, l’uomo pentastellato nasce filosofo, sappiatelo – si mettono a tavolino e scrivono libri.
Abbiamo di proposito tralasciato mamme e bambini. A loro di questi tempi non serve nessuna spintarella per raccontare l’esperienza (se poi c’è una nonna, meglio: fatevi un giretto in libreria o su Amazon). E dunque torniamo a noi. Alla neoboscaiola Siri Helle, che ha scritto Handmade. Learning the Art of Chainsaw Mindfulness in a Norwegian Wood. Limite nostro, finora la parola “chainsaw”, motosega, l’avevamo sempre associata al maniaco del film “Non aprite quella porta”. Vederla associata alla meditazione fa un certo effetto, e comunque cercheremo di tenerci lontani dai boschi norvegesi. E dal libro, che come i molti titoli citati nell’articolo non sono ancora tradotti in italiano. Forse neanche lo saranno. Solo questione di tempo, arriveranno i nostri esuli dalla civiltà.
Da noi è andata finora la barca a vela, anche per mari lontani, esercizio di resistenza e sobrietà. Gli americani vanno nei boschi come Henry David Thoreau, che predicava bene e viveva un po’ più comodo: la capannuccia non era nel fitto bosco, ma a poca distanza dalla vita civile. Se fosse andato proprio tutto storto (ma la sua vita nei boschi era a termine) c’era la fabbrica di matite del padre a fare da salvagente.
Il contrario di come di comportano i nuovi dimissionari. “Vanno via sbattendo la porta e spesso non hanno le idee chiare su cosa faranno”, mette in guardia Bill Burnett. Nel suo libro Designing Your New Work Life (scritto con Dave Evans) spiega che, come in qualsiasi altro progetto, prima bisogna fare i prototipi. E via via migliorarli, e magari fare qualche prova prima di lasciare l’ufficio.
Raggiunta la meta agognata – una vita più tranquilla, soddisfacente, vicina alla natura, condotta senza spreco di risorse in meravigliosa armonia con l’universo – una cosa stupisce. Che a nessuno venga voglia di leggerlo, un libro, invece di precipitarsi a scriverne un altro.