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Recensione

Kundera ci ricorda che stiamo sprecando anche il Ventunesimo secolo

Marco Archetti

L'inedito, pubblicato da Adelphi, è l'accusa firmata dallo scrittore ceco: l'Occidente, nel '900, ha assistito inerte alle rivolte di paesi come la Polonia e Repubblica ceca, i cui moti d'insurrezione nacquero dalla spinta di un'identità culturale che ora pare smarrita

“Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”. Era il settembre del 1956 e questa fu la frase finale del messaggio che il direttore dell’agenzia di stampa ungherese trasmise via telex poco prima che il suo ufficio venisse spianato dall’artiglieria. In quelle ore Budapest si trovava ad affrontare una violenta offensiva militare scatenata dalla Russia e quel messaggio diceva una cosa chiarissima: in Ungheria non era solo l’Ungheria, ma tutta l’Europa a essere attaccata e presa di mira. Ricorda qualcosa?

 
Eccome. Soprattutto la necessità di non dimenticare una lezione, questa: una vita al centro della Storia non è una scampagnata e non bisogna sprecare il Ventesimo secolo. E’ l’ammonimento che si impone leggendo questi due interventi del 1967 e del 1983 firmati da Milan Kundera che Adelphi manda in libreria riunendoli sotto il titolo del secondo, Occidente prigioniero (85 pp., 12 euro), ottima occasione per dar ragione al noto Tizio dei corsi e ricorsi storici e per sospettare che stiamo sprecando anche il Ventunesimo, spesso balbettanti di fronte all’ennesima campagna di teppismo su larga scala lanciata dalla Russia ai danni di un paese che si trova in una posizione cruciale, e lungo i cui confini, inesorabilmente, si giocano destini che non sono solo geografici ma culturali. Dicesi scontro di civiltà? Sì, per lo meno partendo dal presupposto che dire Europa non significhi tanto circoscrivere un fenomeno geografico, quanto riconoscere una mozione spirituale – questo intendeva dire il direttore dell’agenzia di stampa ungherese, questo non venne capito a Parigi e a Berlino perché nel frattempo, secondo Kundera, l’Europa e l’occidente avevano già capitolato, già abdicato a quella mozione e a quello spazio.

  
“Ai russi piace definire slavo tutto ciò che è russo, in modo da poter poi definire russo tutto ciò che è slavo”. Storia non di ieri, dunque, quest’appropriazione indebita a passo di marcia, mistificazione & retorica, se già a metà Ottocento lo scrittore ceco Harel Havlíček metteva in guardia i suoi connazionali da quella che Kundera, riportando la frase, definì “la russofilia idiota e priva di realismo” che rischiava di dilagare (la vedeva Kundera e, in diverse forme, la vediamo oggi, ingrediente di cattive digestioni culturali e di un culto grottesco delle profondità oscure mediato storicamente da una slavofilia messianica, forgiata come una pialla anche nel cantiere di un dostoevskismo manierato e di dozzina).

 
Ma la storia dell’Europa centrale raccontava altro. Era rivolta ad altro. Incarnava altro. La sua fisionomia, infatti, era rissumibile così: il massimo della diversità nel minimo spazio. La Russia, invece, ambiva (ambisce) al minimo della diversità nel massimo spazio. A quello spazio vuoto e uniformato ecco che l’Europa centrale opponeva uno spazio multiforme, ricco di personalità irripetibili, e opponeva rilevanza culturale a fragilità politica, punti fermi a confini volatili, plasmava con la cultura una piccola Europa dentro l’Europa, aggrappandosi, tra uno scossone e l’altro, agli appositi sostegni dell’epoca: furono il teatro, il cinema, la letteratura a lavorare alla primavera di Praga, a suscitarla, non certo il mondo dei mass media. Fu il mondo libero che esprimeva quella cultura – profondamente popolare, insiste Kundera – che alimentò e accese una rivolta “impensabile in Russia”. 

 
“Il destino dell’Europa centrale appare come la prefigurazione del destino europeo in generale,” scriveva quarant’anni fa (scalpello e blocco di marmo, grazie). “Ma l’Europa” – ammoniva ancora – “non si avvide della scomparsa di quel crogiuolo che incarnò una delle radici più profonde della propria cultura perché non sentì più la propria unità come unità culturale”. Nel medioevo la radice fu cristiana, poi Dio si nascose e vinsero i Lumi, ma oggi? Quale valore potrebbe ritenersi identitario? Forse la tolleranza? E qui Kundera corregge: “La tolleranza non rischia forse di diventare vuota e inutile se non protegge una produzione ricca e un pensiero forte?”. Dunque, cosa vuol dire Europa? Esiste ancora una cultura che le garantisca forma, una cultura come “luogo in cui si forgino valori supremi”?

 
Lo scrittore Franz Werfel – infanzia a Praga, gioventù a Vienna, poi emigrato in Francia e negli Stati Uniti – nel 1937, lo stesso anno in cui in Italia uscì il suo bellissimo e crepuscolare “Anniversario dell’esame di maturità”, partecipando a un convegno parigino sul futuro della letteratura prese posizione contro Hitler e i totalitarismi, denunciando l’instupidimento ideologico e giornalistico che avrebbe distrutto la cultura europea. Poi incespicò proponendo un’Accademia mondiale dei Poeti e dei Pensatori, aspirazione ingenua di un uomo autentico, mosso da un desiderio profondo e tutt’altro che frivolo di trovare ancora riferimenti morali in un mondo che vedeva in disfacimento. Uno che non voleva vivere “in un presente decontestualizzato che ignora la continuità della Storia. In un deserto privo di memoria, di echi, e di ogni bellezza”.

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